Con provvedimento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 1° luglio 2014, la Commissione europea ha stabilito le condizioni e i criteri in base ai quali gli aiuti per i settori agricolo e forestale e quelli per le zone rurali sono considerati compatibili con il mercato interno.
Ciò in quanto ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, «(s)alvo deroghe contemplate dai trattati, sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza». Ed anche perché è la Commissione che stabilisce le condizioni da verificare al fine di determinare se una misura che costituisce un aiuto destinato a ovviare ai danni arrecati da calamità naturali o da altri eventi eccezionali rientra effettivamente nel sintagma degli aiuti di stato a finalità regionale.
Del resto, la concessione di aiuti di Stato destinati a favorire lo sviluppo economico dei settori agricolo e forestale e delle zone rurali rientra nel più ampio contesto della politica agricola comune (PAC), e poiché gli effetti economici di un aiuto di Stato non cambiano a seconda che questo sia (anche parzialmente) finanziato dall’Unione o da un unico Stato membro, la Commissione ritiene che, in linea di principio, debba esserci coerenza tra la sua politica in materia di controllo degli aiuti di Stato e il sostegno concesso nel quadro della politica agricola comune dell’Unione. Di conseguenza, il ricorso agli aiuti di Stato può essere giustificato soltanto se è in linea con gli obiettivi di siffatta politica e, in particolare, con gli obiettivi perseguiti dalla riforma della PAC orientata al 2020 (e questa è la ragione per cui il provvedimento in parola ha efficacia sino a tale anno).
Ma si sa, i provvedimenti dell’Unione europea sembrano scarpinare molto prima di arrivare nel nostro Paese ed è soltanto recentissima l’attenzione sulla particolare previsione in ordine agli “Aiuti destinati a indennizzare i danni causati da animali protetti”.
Rigide, serie e coerenti le disposizioni previste. E si badi che si parla d’indennizzo e non già di risarcimento, anche se poi tra i costi ammissibili e l’intensità dell’aiuto, che può arrivare al 100% dei costi ammissibili e all’80% del totale dei costi indiretti ammissibili, la formula tende a liquefarsi.
Sono eloquenti e non abbisognano di commento le previsioni (§ 1.2.1.5) per cui:
– «la presente sezione si applica alle imprese attive nella produzione agricola primaria»;
– «per attenuare i rischi di distorsione della concorrenza ed offrire un incentivo per minimizzare i rischi è richiesto un contributo minimo da parte dei beneficiari. Tale contributo deve assumere la forma di misure preventive ragionevoli (ad esempio recinzioni di sicurezza laddove possibile, cani pastore ecc.) e proporzionate al rischio di danni causati da animali protetti nella zona interessata. Se non è possibile adottare misure preventive ragionevoli, affinché l’aiuto possa essere considerato compatibile lo Stato membro interessato deve dimostrare l’impossibilità di adottare tali misure preventive»;
– «lo Stato membro è tenuto a stabilire un nesso di causalità diretta tra il danno subito e il comportamento dell’animale protetto»;
– «gli aiuti devono essere pagati direttamente all’azienda interessata o a un’associazione o un’organizzazione di produttori di cui l’azienda è socia. Se l’aiuto è versato a un’associazione o a un’organizzazione di produttori, il suo importo non deve superare l’importo cui è ammissibile l’azienda»;
– «il regime di aiuto deve essere fissato entro un termine di tre anni dalla data dell’evento che ha determinato il danno. Gli aiuti devono essere versati entro quattro anni a decorrere da tale data».
La traduzione delle siffatte previsioni nell’applicazione interna italiana dovrebbe fungere da innesco per una rivoluzione copernicana della gestione faunistico-venatoria (con smantellamento dei relativi carrozzoni e defenestrazione dei plurimi responsabili) giacché il cinghiale, il principale imputato della pessima gestione faunistico-venatoria nel nostro Paese nel rapporto con l’agricoltura, non è un animale protetto e non rientra nell’argomentazione della Commissione secondo cui: «i danni ad attrezzature, infrastrutture, animali e piante causati da animali protetti costituiscono un problema sempre più diffuso. Il successo della politica di conservazione dell’Unione dipende in parte dalla gestione efficace dei conflitti tra gli animali protetti e gli allevatori». Quest’ultima locuzione sembra riguardare molto i grandi carnivori e, in quest’ottica, appare utile e proficuo rileggere le condizioni d’indennizzo stabilite dalla Commissione, poco sopra trascritte, al cospetto delle pessime ed inefficaci azioni amministrative e normative interne, che da anni si ripetono autoreferenziali come un disco rotto, nel mentre la minuta conflittualità sul territorio stenta ad essere risolta per il verso giusto.
Sotto altro profilo, nel mentre il sistema della protezione integrale (o quasi), per l’Unione europea, è rappresentato dalle aree Natura 2000, le aree protette italiane, appartenenti ad un paradigma del tutto scoordinato e sconnesso con le normative sovranazionali, sono rimaste nel limbo della difficile esegesi della definizione di “animali protetti”, fintantoché una nota del 20 maggio u.s. della Direzione generale dell’agricoltura e dello sviluppo rurale della Commissione UE non ha fatto notare che nel testo degli “orientamenti” esiste, fra le “definizioni” di cui al punto 2.4 delle disposizioni comuni, l’affermazione (35,28) secondo la quale per “animale protetto”, «debba intendersi qualsiasi animale protetto dalla legislazione unionale o nazionale», e che quindi tali possono considerarsi anche tutti quelli non protetti specificamente da apposite previsioni normative ma semplicemente appartenenti alla congerie della fauna protetta in quanto insistenti nel territorio di un parco nazionale (la nota della Commissione non menziona le altre categorie di aree protette, per cui la querelle abbisognerà di un altro sforzo esegetico).
Bene, tutto ciò sta a significare che i danni da cinghiale, o da cervidi, nei parchi nazionali potranno essere indennizzati, nel rispetto delle condizioni stabilite, per cui le somme pagate non saranno considerate aiuti di stato in grado di falsare o minacciare la libera concorrenza.
Il raccordo normativo interno, in tal caso, deve intendersi costruito nel senso che la previsione di cui al § 1.2.1.5, sino al 2020, integra in parte qua sia il disposto di cui all’art. 15 comma 3 della l. n. 394/1991, sia i piani ed i regolamenti (ove vigenti …) dei parchi relativamente alle modalità ed alle commisurazione degli indennizzi per i danni da fauna selvatica verificatisi “nel” territorio del parco e limitatamente a quelli subiti dalle imprese attive nella produzione agricola primaria .
Ma va ricordato che l’art. 15 comma 3 l. n. 394/1991 e l’art. 2043 c.c. obbligano gli enti parco all’indennizzo e al risarcimento di “tutti” i danni arrecati dalla fauna del parco, ivi compresi quelli alla circolazione stradale e alla incolumità delle persone. Nessun appiglio normativo o giurisprudenziale, infatti, consente di ritenere non indennizzabili o non risarcibili (o risarcibili da altri enti) i danni arrecati a beni diversi rispetto a quelli appartenenti al contesto agro-forestale ed all’allevamento. E ciò in quanto, al di là di sole due speculari, “spurie” e maldestramente motivate decisioni emesse dai giudici del Palazzaccio, abbinabili al noto precedente di esclusione della violenza sessuale nel caso in cui la vittima indossi i jeans, deve ritenersi che «sia le competenze gestionali arguibili in forza dell’art. 11 l. 394/1991, che il chiaro tenore letterale dell’art. 15, comma 3, della medesima disposizione normativa, recante appunto la disciplina delle aree protette, identifica l’ente parco come l’effettivo titolare dei poteri di amministrazione del territorio protetto e di gestione della fauna ivi insistente. Ciò con ogni conseguenza sull’attribuzione della responsabilità per i danni cagionati a terzi dalla fauna stessa» (così Trib. Pescara, 9 febbraio 2016 n. 175, in fattispecie di danno alla circolazione stradale).
Giacomo Nicolucci