Un team di ricercatori del Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) delle sedi di Pisa e Milano, propone di studiare la vegetazione delle aree minerarie elbane abbandonate, per verificare se quegli organismi riescono ad attenuare l’inquinamento tipico di tali ambienti- "Certe piante- dicono gli esperti- assorbono sali e metalli pesanti, presenti nelle ex miniere".E infatti da un'ampia relazione dell'Arpat del 2002 si ricavano indicazioni su presenze di arsenico, nichel o bromo e altre sostanze. Un intervento, quello che ipotizzano gli scienziati, che potrebbe essere attuato d'intesa con i Comuni elbani interessati e quindi sarebbe opportuno uno studio nelle zone minerarie storiche utilizzare fin da tempi remoti per estrarre prevalentemente ossidi di ferro, come pirite, ematite e simili ossidi, attività che poi è terminata agli inizi degli anni 80. Coordinatrice del gruppo di ricercatori è Barbara Basso, biologa vegetale, che negli ultimi 20 anni si è occupata di biotecnologie per il miglioramento genetico di piante coltivate e per la salvaguardia della biodiversità. "Ho fatto di recente un sopralluogo alla Valle del Giove e altre aree limitrofe, - segnala la docente - dopo intese con i miei colleghi. Mi sono basata anche su un documento prodotto dall'Arpat nel 2002, che documenta l'esistenza di arsenico e altri metalli in acque ristagnanti e nel suolo in quelle aree. Questa ricerca, se andasse a buon fine, potrebbe fornire informazioni preziose sulla capacità di alcuni vegetali di risanare, o per lo meno stabilizzare, ambienti inquinati e contribuire ad eventuali futuri progetti di biorisanamento delle ex aree minerarie dell'Isola, ma anche di altre aree geografiche che presentino caratteristiche simili. Un'idea di cui bisogna verificare la fattibilità”. E Lorenzo Marchetti ex presidente del parco minerario precisa: ”Anni fa il Comune di Rio Marina attuò lavori di messa in sicurezza delle zone minerarie, dal punto di vista idrogeologico, e furono anche messe erbe che però non attecchirono. Le sostanze presenti, a concentrazioni limitate, non sono particolarmente nocive agli esseri viventi, sono sempre esistite come in ogni area mineraria e non intaccano le falde acquifere che sono ben lontane. Poi il finanziamento si è esaurito e non è stato fatto altro”. "Noi si dovrebbe - conclude Basso- prelevare dei campioni vegetali e di terreno per verificare di nuovo i metalli presenti nel substrato e se vengono accumulati all'interno delle piante. Quelle presenti ad oggi nelle aree esaminate sembrano per altro godere di ottima salute. A seconda dei risultati che otterremo, valuteremo le strategie migliori per continuare. Sono note ormai da molti anni - conclude - le potenzialità di accumulo di alcune specie vegetali. Ad esempio la Noea mucronata, della famiglia delle Chenopodiacee (la stessa delle barbabietole), individuata con uno studio su un'area mineraria dell'Iran, assorbe e segrega al suo interno i contaminanti. E le piante, oltre a detossificare il terreno, devono essere anche ben adattate all'ambiente delle ex miniere elbane. Possiamo ricercare potenziali iperaccumulatori tra le piante già presenti nelle zone che studieremo". E plaude all'iniziativa Giuseppe Tanelli geologo e primo presidente del parco dell'Arcipelago. “ Sono note le proprietà; di certe piante che hanno il potere di assorbire sali e metalli pesanti, per cui il progetto della dottoressa Basso è senza dubbio da incoraggiare. Le aree minerarie ovunque presentano tali metalli residui in acque stagnanti e suolo. Non ci sono rischi per l'uomo, però il bagno del laghetto di Terranera è da evitare”.