Secondo lo studio “The state of desalination and brine production: A global outlook”, pubblicato su Science of the Total Environment da un team di ricercatori dell’United Nations University (UNU – Canada), dell’università olandese di Wageningen e del Gwangju Institute of Science and Technology (Corea del sud), «Il numero in rapida crescita di impianti di dissalazione in tutto il mondo – oggi quasi 16.000, con impianti concentrati in Medio Oriente e Nord Africa – placherà una crescente sete di acqua dolce ma creerà anche un dilemma salato: come trattare tutta la salamoia avanzata carica di sostanze chimiche». Gli autori dello studio usano il termine “salamoia” per riferirsi a tutto il concentrato scaricato dagli impianti di dissalazione, in quanto la maggior parte del concentrato (> 95%) proviene da fonti di acqua salata e altamente salmastra.
Il team di ricercatori stima che l’attuale capacità di produzione di acqua dolce degli impianti di dissalazione sia di 95 milioni di m3 al giorno, pari a quasi la metà della portata media delle Cascate del Niagara e fanno notare che «Per ogni litro di produzione di acqua dolce, tuttavia, gli impianti di desalinizzazione producono in media 1,5 litri di salamoia (anche se i valori variano notevolmente, a seconda della salinità dell’acqua di alimentazione e della tecnologia di dissalazione utilizzata e delle condizioni locali). A livello globale, gli impianti oggi scaricano ogni giorno 142 milioni di metri cubi di salamoia ipersalina (un aumento del 50% rispetto alle precedenti valutazioni)». In un anno si tratta di 51,8 miliardi di m3, quanto basta per ricoprire la Florida con uno strato di 30,5 cm di salamoia.
Per rivedere le statistiche globali che si sono rivelate poco accurate, gli autori dello studio hanno analizzato un dataset appena aggiornato che è il più completo mai compilato sugli impianti di desalinizzazione e non chiedono certo la chiusura dei dissalatori ma «Migliori strategie di gestione della salamoia per affrontare una sfida in rapida crescita», sottolineando «Le previsioni di un forte aumento del numero di impianti di desalinizzazione e quindi del volume di salamoia prodotto, in tutto il mondo».
A partire da pochi dissalatori costruiti negli anni ’70 soprattutto in Medio Oriente, oggi nel mondo ci sono 15.906 impianti di desalinizzazione operativi in 177 Paesi, due terzi dei quali in Paesi ad alto reddito. Il 48% della capacità di desalinizzazione globale è in Medio Oriente e Nord Africa, con in testa l’Arabia Saudita (15,5%), gli Emirati arabi uniti (10,1%) e il Kuwait (3,7%). L’Asia orientale – Pacifico e il Nord America producono rispettivamente il 18,4% e l’11,9% dell’acqua desalinizzata globale con la Cina (7,5%) e gli Usa (11,2%) che fanno la parte del leone. La Spagna, con il 5,7% del totale mondiale, rappresenta oltre la metà della desalinizzazione totale in Europa occidentale (9,2%). La quota globale della capacità di desalinizzazione è bassa nell’Asia meridionale (3,1%), in Europa orientale e ‘Asia centrale (2,4%) e nell’Africa subsahariana (1,9%), dove la desalinizzazione è limitata soprattutto a piccole strutture private e industriali.
«La dissalazione sta diventando più accessibile – si legge nello studio – e questo è attribuibile al calo dei costi grazie al continuo miglioramento delle tecnologie a membrana, ai sistemi di recupero energetico e all’accoppiamento degli impianti di desalinizzazione con fonti di energia rinnovabili. La gestione della salamoia può rappresentare fino al 33% del costo di un impianto e rappresenta uno tra i maggiori vincoli per uno sviluppo più diffuso».
L’Università dell’Onu sottolinea che «La desalinizzazione è una tecnologia essenziale in Medio Oriente e per le piccole nazioni insulari che solitamente mancano di risorse idriche rinnovabili». 8 paesi – Maldive, Singapore, Qatar, Malta, Antigua e Barbuda, Kuwait, Bahamas e Bahrein – possono soddisfare tutti i loro bisogni idrici solo attraverso la desalinizzazione. Altri 6 Paesi possono soddisfare oltre il 50% dei prelievi idrici attraverso la dissalazione: Guinea equatoriale, Emirati Arabi, Seychelles, Capo Verde, Oman e Barbados.
Lo studio evidenzia che il problema della salamoia è dovuto anche al fatto che «Il 55% della salamoia globale è prodotto in soli 4 paesi: Arabia Saudita (22%), Emirati Arabi Uniti (20,2%), Kuwait (6,6%) e Qatar (5,8%)» e che i dissalatori del Medio Oriente, che operano in gran parte utilizzando le tecnologie di dissalazione seawater e termica, che in genere producono 4 volte più salamoia per m3 di acqua dolce dei dissalatori che utilizzano i processi a membrana river water, come negli Stati Uniti.
Gli scienziati fanno notare che «I metodi di smaltimento delle salamoie sono in gran parte dettati dalla geografia, ma tradizionalmente includono lo scarico diretto della salamoia negli oceani, nelle acque superficiali o fognarie, le iniezioni in pozzi profondi e in stagni di evaporazione. Gli impianti di dissalazione vicino all’oceano (quasi l’80% della salamoia viene prodotta entro 10 km da una costa) scaricano il più delle volte salamoie non trattate direttamente nell’ambiente marino».
Per gli autori dello studio i maggiori rischi posti dalla salamoia agli ecosistemi marini sono un innalzamento notevole della salinità dell’acqua di mare dove viene scaricata la salamoia e l’inquinamento con le sostanze chimiche tossiche usate come anti-incrostanti e anti-floccanti nel processo di desalinizzazione. A preoccupare di più sono rame e cloro.
Il principale autore dello studio, Edward Jones, che lavorava all’UNU Institute for water, environment and health (UNU-Inweah, ospitato dal governo del Canada e dalla McMaster University) e che ora è all’università di Wageningen. Spiega che «L’acqua salata esaurisce l’ossigeno disciolto nelle acque riceventi. L’alta salinità e la riduzione dei livelli di ossigeno disciolto possono avere un profondo impatto sugli organismi bentonici, che possono tradursi in effetti ecologici osservabili lungo tutta la catena alimentare».
Ma lo studio evidenzia anche le opportunità economiche di utilizzi alternativi della salamoia dei dissalatori: nell’acquacoltura, per irrigare specie tolleranti al sale, per produrre elettricità e recuperare il sale e i metalli che contiene, tra cui magnesio, gesso, cloruro di sodio, calcio, potassio, cloro, bromo, e litio, presenti naturalmente nell’acqua di mare.
I ricercatori dicono che «Con una tecnologia migliore, potrebbe essere estratto un gran numero di metalli e sali negli effluenti degli impianti di dissalazione. Questi includono sodio, magnesio, calcio, potassio, bromo, boro, stronzio, litio, rubidio e uranio – tutti utilizzati dall’industria, nei prodotti e in agricoltura. Tuttavia, le tecnologie necessarie sono immature; oggi il recupero di queste risorse non è economicamente competitivo» Secondo un altro degli autori, Manzoor Qadir, vicedirettore dell’UNU-Inweh «E’ necessario tradurre in realtà tali ricerche e trasformare un problema ambientale in un’opportunità economica. Questo è particolarmente importante nei Paesi che producono grandi volumi di salamoia con efficienze relativamente basse, come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait e Qatar. Quasi 22 milioni di m3/giorno di salamoia vengono prodotti a una distanza superiore a 50 km dalla costa più vicina. All’UNU-Inweh fanno notare che «Nonostante l’elevato volume di salamoia prodotto in queste aree, esistono pochissime opzioni di gestione della salamoia economicamente ed ecologicamente valide. La salamoia prodotta nell’entroterra rappresenta un problema importante per molti Paesi situati in tutte le regioni del mondo, con 64 Paesi che producono più di 10.000 m3/giorno di salamoia nelle località dell’entroterra. La produzione di salamoie all’interno è un problema particolare in Cina (3,82 milioni di m3/giorno), Usa (2,42 milioni di m3/giorno) e Spagna (1,01 milioni di m3/giorno)».
L’uso dell’acqua di scarico salina offre anche potenziali vantaggi commerciali, sociali e ambientali. La salamoia scaricata è stata utilizzata per l’acquacoltura, arrivando a un aumento della biomassa ittica del 300%. È stata anche usata con successo per coltivare l’integratore alimentare Spirulina e per irrigare gli arbusti e le colture foraggere (sebbene quest’ultimo utilizzo possa causare una progressiva salinizzazione del terreno)».
Un altro autore dello studio, Vladimir Smakhtin, direttore dell’UNU-Inweh, che sta studiando attivamente perseguendo le risorse d’acqua non convenzionali, evidenzia che non è in discussione la necessità di realizzare dissalatori e conclude: «Attualmente, circa 1,5 – 2 miliardi di persone vivono in aree di scarsità fisica di acqua, dove le risorse idriche sono insufficienti per soddisfare le richieste di acqua, almeno durante una parte dell’anno. Circa mezzo miliardo di persone soffrono di carenza idrica per tutto l’anno. C’è l’urgente bisogno di rendere le tecnologie di desalinizzazione più accessibili e di estenderle a Paesi a basso reddito e a reddito medio-basso. Allo stesso tempo, però, dobbiamo affrontare gli aspetti potenzialmente negativi della desalinizzazione, ovvero il danno causato dalla salamoia e dall’inquinamento chimico all’ambiente marino e la salute umana. La buona notizia è che con gli sforzi sono stati fatti negli ultimi anni e con il continuo perfezionamento della tecnologia e il miglioramento della convenienza economica, vediamo una prospettiva positiva e promettente».