Ripropongo una mia breve nota pubblicata dieci anni fa su GeoItalia, il Magazine della Federazione Italiana Scienze della Terra. E' datata ma per molti aspetti sembra ancora attuale.
Scienza a parte non mi piacciono coloro ai quali "piace chiamare Gretini" i 'seguaci' di "una bimba malata, con una sindrome che la induce a fissarsi su un tema monocorde".
Oggi, anche nelle pagine di Geoitalia (n. 23 giugno 2008, n.24 ottobre 2008, n. 26 marzo 2009), si assiste ad una montante dialettica fra “catastrofisti“ , “negazionisti“ e/o “scettici”, in merito alle cause del riscaldamento globale, alle variazioni climatiche, ed ai modi per contrastarle e prevenirne gli effetti ecologici, sociali ed economici. Dialettica quanto mai sana ai fini del progresso delle conoscenze sulle regole che governano l’evoluzione del Pianeta Terra, come del resto lo furono quelle fra “plutonisti” e “nettunisti”, nate agli albori della Rivoluzione industriale. Ma credo sia una consapevolezza sentita l’esigenza che il confronto sia condotta, rifuggendo da pregiudizi ideologici e battaglie anti-IPCC e anti-Protocollo di Kyoto, così come da conflittualità disciplinari fra climatologia e geologia.
Al riguardo possiamo ricordare che nella comunità geologica è oggetto di riflessione la proposta lanciata da P.J Crutzen – Premio Nobel per la chimica dell’atmosfera- e ripresa nel contesto della Geological Society of London e della Geological Society of America, di istituire l’epoca specifica dell’Antropocene, a segnare il tempo geologico successivo alla rivoluzione industriale (GSA Today. vol.18, n.2, febbraio 2008).
Scrive P.J. Crutzen: “L’ Antropocene siamo noi. Siamo noi, nel bene e nel male la variabile geologica oggi più importante, ed è nostra la responsabilità del futuro del Pianeta. Perché abbiamo gli strumenti teorici e pratici per invertire la tendenza al degrado” (Benvenuti nell’Antropocene, Mondadori,2005).
E’ accettato che il sistema termodinamico terrestre passa un periodo di naturale riscaldamento – imputabile a fattori astronomici, all’attività solare e/o a fattori termici interni (Bonatti; Le Scienze, 489; 2009) -, ma è difficile non ritenere che l’uso di combustibili fossili – che inevitabilmente accorciano i tempi del ciclo geochimico lungo del carbonio-, le deforestazioni e le emissioni industriali e veicolari di gas serra, non incidano sul riscaldamento globale, e comunque non determinino fenomeni di degrado della qualità dell’area, a livello locale e regionale. Viene così ad essere fortemente discutibile promuovere iniziative sulla inutilità di incrementare l’uso di energie rinnovabili ed alternative, magari proponendo per risolvere i problemi energetici del nostro Paese, la costruzione di dieci centrali nucleari, come possiamo rilevare dai documenti editi sull’argomento da Galileo 2001 , antesignana nella battaglia “negazionista”.
Il tutto a prescindere dagli aspetti educativi e considerando solo i temi pratici dell’ ampio dibattito che grava su queste opzioni: rischi ambientali e sanitari, pesanti costi economici, problemi dello smaltimento delle scorie, rischiose relazioni fra nucleare fissile civile e militare, facili esposizioni ad attacchi terroristici, difficile scelta dei siti esenti da rischio sismico ed idrogeologico, e infine, ma come bene sappiamo, non ultimo, il fattore “Nimby” (never in my back yard) come bene ricordano i passati avvenimenti di Scansano Jonico, e come emerge attualmente dopo la recente opzione per il nucleare di terza generazione, formulata dal Governo.
Per quanto riguarda le devastanti ricadute economiche per il “mondo industriale” e per l’Italia, che si avrebbero con le “scellerate” previsioni di riconversioni industriali, tese a contenere le emissioni di anidride carbonica previste da Kyoto- formulate da alcuni economisti -, eviterei di dargli troppo credito, constatando, per rimanere con i piedi per terra, i risultati che stiamo vivendo in conseguenza di troppo disinvolte e creative teorizzazioni finanziarie del recente passato. Del resto, si palesa sempre di più come una svolta industriale in chiave ecologica, sia in grado di aprire nuovi mercati e nuovi settori di ricerca scientifica, ivi compreso il campo geologico. E’ indubbio che l’applicazione del Protocollo di Kyoto muove grandi interessi finanziari, economici ed industriali, che confliggono, a mio parere giustamente, con quelli consolidati dai modelli di sviluppo fino ad oggi dominanti, e che sempre di più mostrano la loro insostenibilità ecologica, economica e sociale E’ vero che speculatori e pescecani sono sempre possibili, e che senza l’accordo degli Stati Uniti e dei grandi paesi ad economia emergente come la Cina e l’India, gli effetti Kyoto sono largamente vanificati, ma tutto ciò non comporta il rigettare un percorso cultuale, faticosamente attivato, in grado di contrastare il degrado ambientale e di aprire il mondo alla solidarietà ed allo sviluppo sostenibile. Del resto sembrano finiti i tempi durante i quali l’Hearthland Institute riceveva i complimenti della amministrazione statunitensi. L’organizzazione, come si legge nel suo sito web è stata fondata a Chicago nel 1984 per promuovere il libero-mercato e dal 2008 patrocina convegni anti-IPCC ritenendo che: “.. global warning is not a crisis and that immediate action to reduce emissioni is not necessary”.
L’attenzione ai problemi dell’ambiente, alle responsabilità consolidate ed emergenti dei paesi del G20, ai bisogni del resto del mondo, segnano la politica del governo di Barack Obama. E’ la svolta ecologica della più grande potenza del mondo che in tempi più o meno lunghi è destinata a riverberare in tutto il Pianeta. La stessa Cina sta rivedendo i suoi contraddittori e tumultuosi modelli di sviluppo e forse non a caso, il Ministro dell’Ambiente Prestigiacomo, ha bollato come “fuori dal tempo”, l’iniziativa del Senato tesa ad escludere il fattore antropico nelle variazioni climatiche.
(Geoitalia, n. 27, 2009)
Giuseppe Tanelli (DST Unifi)