La GTE attraversa la strada che da Rio Porta a Bagnaia, e sale al Monte Strega (471 m.) per proseguire lungo il crinale fino alla zona de la Croce (342 m), lungo un sentiero segnato nei diaspri delle Liguridi. In breve si giunge all’esposizione di un bel contatto con i basalti nella zona fra Monte Capannello (496 m) e Rio Elba. Qui si trovano le sorgenti delle acque che alimentano la Fonte dei Canali di Rio, prossima agli storici Lavatoi e alla Casa del Parco dedicata a Franco Franchini, l’indimenticabile sindaco di Rio.
La Casa del Parco venne aperta venti anni fa, restaurando e recuperando il primo della ventina di mulini che si trovavano lungo il corso d’acqua. Il sentiero, sempre nei basalti, scende a le Panche dove incrocia la strada del Volterraio, e si apre alla vista della antica fortezza- custodita e restaurata dal Parco Nazionale, e aperta alle visite guidate -, eretta su una montagna di basalto a cuscini e diaspri.
La fortezza venne costruita attorno all’anno Mille, nel luogo in cui sorgeva una preesistente costruzione, etrusca o romana. In seguito fu variamente ristrutturata ed ampliata svolgendo un ruolo di avvistamento ad ampio raggio e di rifugio. Unico presidio elbano mai espugnato nei
secoli dagli attacchi pirateschi o corsari, di saraceni, barbareschi e bande franco – ottomane. Luogo di miti e leggende; fantasmi e principesse. Alla fine del Settecento cessò l’interesse militare della fortezza che cadde lentamente in rovina fino a divenire un ricovero di capre e, nei primi anni “ruggenti” del Pnat un luogo dove si accanivano gli incendi appiccati da quella frangia deviata dei contrari al Parco che, al grido “Facciamo l’Elba nera”, mostrava tutta la sua stupida e vigliacca violenza. Il Parco come risposta, acquistò la Fortezza e la montagna sulla quale è costruita, con lo scopo di farne un’icona della storia e della natura dell’Elba e dell’Arcipelago. Pochi momenti sono carichi di magiche suggestioni naturalistiche e culturali come salire al Volterraio ed affacciarsi dai suoi merli quando nel cielo si alza il gheppio- il piccolo falco, “signore del Volterraio” come dice Antonello Marchese-, e il sole scompare dietro il profilo del Capanne e illumina di luce dorata la Città di Cosimo e la sua Rada, e i monti della Corsica e Capraia segnano l’orizzonte.
Attraversata la strada del Volterraio, la GTE sale in un incredibile crescendo di grandi paesaggi verso le rossastre guglie diasprine di Cima del Monte (502 m.) dove si trovano i resti di un insediamento dell’Età del Bronzo e dove, in primavera spuntano dalle fessure delle
nude rocce i fiori rosa e purpurei del fiordaliso dell’Elba (Centaurea Aethaliae).
Poi scendendo, il sentiero attraversa un’area dove dalla fitta macchia emergono affioramenti di Calcari a Calpionelle e di calcari selciferi della Formazione di Nisportino, e giungiamo così ai piedi del Monte Castello. Un luogo magico affacciato sulla Rada di Portoferraio e sui superbi vigneti della Chiusa dei Foresi, oggi Corradi, per lungo tempo curati da una grande donna e un grande uomo: Giuliana Foresi e Taddeo Taddei Castelli, il partigiano “ Nembo”, cugino di Sandro Pertini. Poco oltre, la collinetta dove si erge la Chiesa romanica di Santo Stefano alle Trane, in prossimità della quale, dicono le fonti, nel XVIII secolo venne ritrovato l’Offerente, un mirabile bronzo etrusco di scuola populonese del VI sec. a.C., conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Un segno dei tempi in cui lo Stato dei Presidi comprendeva Porto Longone, e la Spagna prima e Napoli poi, erano di fatto le potenze egemoni del territorio. Nei contrafforti diasprini di Monte Castello che guardano Porto Azzurro, si erge la suggestiva Chiesetta della Madonna del Monserrato, che è possibile raggiungere scendendo il sentiero 205.
Fu edificata “per grazia ricevuta” dal governatore spagnolo don Josè Ponce de Leon nel 1606, su di uno sperone roccioso fra agavi e cipressi in prossimità di una sorgente d’ acqua convogliata con un piccolo acquedotto fino alla Chiesetta.
Lasciato il Passo del Castello, la GTE giunge, poco dopo il punto di ristoro, vivamente consigliato di “Terra e Cuore”, sul ciglio del bacino idrografico dei Fossi del Buraccio- Valdana - Mar dei Carpisi.
Qui si stacca il sentiero che conduce a Porto Azzurro (210), come da una settantina di anni si chiama l’antico Portus Longus della Tavola Peutingeriana. Per fortuna i suoi abitanti continuano a chiamarsi “Longonesi”, alla faccia di coloro che li avrebbero voluti “azzurrini”.
Sotto di noi gli stabilimenti per il trattamento dei rifiuti solidi urbani del Buraccio e gli opifici della Miniera di materiali feldspatici de La Crocetta. Due realtà al centro di dure dialettiche sociali ed istituzionali.
Fra la Rada di Porto Longone e il Lido di Capoliveri si stende la Piana di Mola, che ospita una preziosa zona umida luogo di sosta di fenicotteri, cavalieri d’Italia, aironi, piro piro. Ma Mola è preziosa anche per le sue caratteristiche geologiche che sono delle pagine aperte
sugli ultimi 10.000 anni della Grande Storia dell’Elba. Siamo nei primi millenni dell’Olocene, all’inizio del Neolitico, quando passato il grande freddo dell’ ultima glaciazione nel Vicino Oriente, a Gerico e a Catal Huyuk, si costruivano le prime città. All’Elba, che con lo
scioglimento dei ghiacci stava acquistando la sua “ultima“ insularità, il Neolitico è scarsamente documentato.
Nei tempi successivi, il livello del mare è continuato a salire, e nella parte orientale della Piana di Mola si forma una vasta laguna in cui- quando i Rinaldoni di Rio percorrono l’Elba alla ricerca del rame e dello stagno- si depositano argille limose grigio scure ricche di
resti fossili animali e vegetali, datati al radiocarbonio fra circa 6.600 e 3.400 anni. Poi i detriti portati dai corsi d’ acqua- in grande parte smantellando i depositi terrazzati del Pleistocene superiore che contornano Mola - hanno lentamente interrato la Piana, dove ancora nel Medioevo era possibile raggiungere in barca la zona di Aiali come fece, narrano le cronache, quel giorno del novembre del 1376 Papa Gregorio XI per raggiungere la bella Chiesa di San Michele sulle pendici di Capoliveri. Poi la Piana di levante ha acquisito le caratteristiche di una preziosa zona umida costiera, purtroppo nel tempo lordata da immonde masse di rifiuti. Il Pnat, fin dalla sua istituzione ha realizzato varie opere di bonifica e valorizzazione per restituire alla zona umida di Mola il suo grande valore naturalistico.
Ma sembra incredibile come ancora oggi questo prezioso patrimonio, sia violentato da ignoranza e inciviltà.
La GTE prosegue verso maestrale, lungo il ciglio del bacino del Buraccio e scende a Casa Traditi (101 m.) e alle case del Buraccio (102 m.). Siamo entrati nelle Terre dei flysch, dei porfidi e dell’eurite. I flysch (parola dialettale che nella Svizzera tedesca indica uno scivoloso pendio) o torbiditi (da torbida, come massa acquosa di fango e detriti), sono un tipo particolare di successioni detritiche clastiche, di natura calcarea e/ o silicatica, studiate e definite in origine nelle sequenze sedimentarie delle Alpi. Queste formazioni, come in precedenza accennato, sono caratterizzate dalle ricorrenti sequenze di strati che mostrano una marcata granulometrica gradata, da grossolana alla base e sempre più fine verso il tetto. Nei sedimenti in prevalenza di natura silicatica si parla di conglomerati che passano ad arenarie per finire con sequenze argillose e/o marnose.
Nei contesti calcarei i sedimenti granulometricamente analoghi a quelli silicatici si indicano come calciruditi , calcareniti e calcilutiti.
I flysch sono formazioni che si depositano in ambiente pelagico ai piedi delle scarpate continentali (conoidi marine) e/o nelle piane abissali più distali, durante episodi di particolare intensità sismica. Le scosse telluriche provocano il distacco dei sedimenti lungo la scarpata così da generare una vera e propria “valanga” di detriti, fango e acqua, la così detta “nuvola di torbida”, dalle quale (ri)sedimentano i materiali solidi in sequenza gravitativa, dai clasti più grossolani ai più fini.
Nel bacino Buraccio- Valpiana -Mar di Carpisi affiorano due distinte Unità strutturali di flysch, indicate nella carta del 1967 come Flysch Paleocenico (E) e Flysch Cretacico (C2 e C1) e in quella del 2015 rispettivamente come Unità di Lacona e Unità di Ripa Nera. Il Flysch Paleocenico, che affiora in ridotti areali e sul quale si erge il Santuario della Madonna della Neve, é quasi totalmente costituita da spessi strati di argilliti grigie con intercalazioni di calcilutiti silicizzate, marne e calcareniti torbiditiche che , alla Punta della Contessa sovrastano un livello di brecce con clasti di serpentiniti e basalti, in una matrice calcareo sabbiosa (Formazione Madonna di Lacona). La presenza di nannofossili e nummuliti indica una età dell’Eocene medio (48,6- 40,4 Ma). L’ambiente di deposizione era
un’area del bacino ligure, con substrato ofiolitico deformato, prossimo a quello toscano, durante un periodo tettonico di particolare attività.
Più estesi affioramenti competono al Flysch Cretacico (Unità di Ripanera), che si estende da Campo fino a Capoliveri e che rappresenta l’Unità più alta nella pila strutturale dell’Elba. Consiste di una successione che dal basso comprende: Argille a Palombini, argilliti vari colori e torbiditi fini (Formazione del Golfo di Lacona) e, a seguire verso il tetto, una successione torbiditica di arenarie e calcareniti che gradano ad argille nerastre, calcari marnosi e marne (Formazione di Marina di Campo). L’età sulla base dei nannoplancton appare essere del Cretaceo (Hauteriviano - Maastrichtiano; 136- 65 Ma) e l’ambiente di deposizione una piana abissale ed una conoide marina, in zone distali del bacino ligure.
Ai Flysch elbani sono associate masse scompaginate di rocce magmatiche, costituite da apliti (πa) e porfidi granitici (π), che si incontrano anche nel tratto della GTE che percorre il ciglio del Bacino Buraccio-Valdana- Mar di Carpisi, ma che trovano i loro massimi affioramenti fra Colle Reciso e la Piana di Campo. L’aplite elbana, conosciuta con il nome storico di eurite, è una roccia magmatica subvulcanica biancastra di aspetto porcellanaceo formata da quarzo, feldspato potassico, oligoclasio, albite e miche, che include spesso nere concentrazioni di tormalina. Gli affioramenti, si estendono in modo discontinuo dal Mar di Carpisi, dove è attiva la Miniera della Crocetta, fino a Portoferraio, Capo Bianco e Monte Bello, dove con blocchi di eurite venne edificato il fortilizio di Montealbero che lo
corona. I ciottoli di eurite, “macchiati dal sudore degli Argonauti”, entrano nel mito e, come narra Apollonio Rodio ne’ Le Argonautiche (lib.IV, 654-658), formano le Ghiaie di Portoferraio. L’età radiometrica è attorno a 8,4 Ma (Miocene superiore: Tortoniano) e
rappresentano le più antiche manifestazioni del magmatismo granitico del Monte Capanne. Per quanto riguarda i porfidi granitici, questi si presentano con una colorazione da grigio biancastra, fino a bruno-rossastro, con una tipica tessitura porfirica a fenocristalli di
feldspato potassico, quarzo, plagioclasio e biotite, immersi in una pasta di fondo quarzoso- feldspatica a grana fine. Nella recente letteratura si distinguono due tipi di porfidi granitici, che dalle loro località tipo vengono chiamati: Porfido di Portoferraio (FID)- con caratteristiche mineralogiche variabili da monzogranito a sienogranito-, e Porfido di San Martino (PFM) con caratteristiche monzogranitiche e una marcata prevalenza di feldspati potassici fra i fenocristalli. L’età radiometrica è compresa 8 - 7, 3 milione di anni (Miocene superiore: Tortoniano).
Beppe Tanelli
(Nell'immagine: La GTE da l’Aia di Cacio al Buraccio)