Partiamo dai dati. All'Elba la rete di strade provinciali copre complessivamente poco meno di 150 chilometri di tracciato. Se li mettessimo in fila, avremmo quasi un rapporto di 1 a 1 con lo sviluppo costiero dell'isola. La provincia di Livorno gestisce circa 800 chilometri di strade, di cui poco meno della metà (390) rappresentati dalla ex statale dell'Aurelia. La superficie della provincia è di 1214 chilometri quadrati, quindi l'Elba (224 km²) rappresenta più di un quinto del totale. Ma se facciamo un rapporto delle strade provinciali (escludendo la suddetta Aurelia, per decenni arteria di rilevanza nazionale più che provinciale) il rapporto tra le strade elbane e il totale diventa più di un terzo. Non poco, dunque.
Ma non basta. Va considerato anche quel terzo circa di strade asfaltate di pertinenza comunale, sia urbane che extraurbane. In totale, all'Elba un auto ha a disposizione più di 200 chilometri, limitandoci ai tratti asfaltati. Anche qui abbiamo un rapporto di quasi 1 a 1 con la superficie dell'isola. Un sovradimensionamento che rappresenta un problema, come vedremo fra breve.
Se la rete stradale isolana nell'ultimo mezzo secolo non ha visto grandi variazioni, negli ultimi trent'anni si è assistito a una graduale asfaltatura di diversi chilometri di sterrati. E non certo in funzione pubblica, ma solo turistica o ancor peggio di tornaconto elettorale. Abbiamo citato il caso della Parata, ma c'è anche quello della strada della Falconaia, e recentemente di quello della strada di Calamita e del Calone. È infatti il comune di Capoliveri che, negli ultimi anni si è mostrato solerte nelle pavimentazioni. Annunciandole tra squilli di trombe, a scopo puramente propagandistico. Ma non c'è proprio niente da esultare.
L'asfaltatura di una strada è un consumo di suolo. Cioè di terra che muore, di un ciclo dell'acqua che: o si interrompe, o accelera drammaticamente, non permettendo l'assorbimento del terreno, delle falde e dei fossi. E inoltre di un'acqua sporca, ma non semplicemente fangosa, che quando finisce nelle falde e in mare si porta con sé elementi inquinanti. In un documento dell'Eni sul dilavamento stradale (eniscuola.net/wp-content/uploads/2017/03/dilavamento.pdf) si legge: “Si tratta di un inquinamento importante perché raccoglie una grande quantità di sostanze diverse, tutte potenzialmente pericolose, contenute nell’acqua piovana che pulisce l’asfalto e nelle particelle solide che si trovano su di esso (sedimenti stradali). Per esempio, con i gas di scarico e i lubrificanti si perdono piombo, idrocarburi, nichel e bromo. Ferro e cromo si staccano dalle carrozzerie corrose, mentre solfuri, cloro e cianuro sono dispersi attraverso i liquidi antigelo. Gli pneumatici, infine, depositano sull’asfalto minuscole particelle di gomma contenenti piombo, cadmio e zinco”.
E qui ritorniamo a quel significativo rapporto di 1 a 1, tra chilometri di asfalto e chilometri quadrati. Cioè di un'area, che si conta in decine di ettari (sì, avete letto bene: decine di ettari), impermeabilizzata, disseccata, inquinante. O, se volete un termine forte: morta. E quindi devastante per l'ecosistema circostante.
Facciamo un semplice calcolo di massima: l'asfaltatura della strada delle miniere e del Calone, circa sei chilometri, corrisponde a un'area persa di circa 20mila metri quadri. 2 ettari. Quasi tre campi di calcio sottratti ai cicli biologici dell'ambiente, per sei miseri chilometri al servizio di una tecnologia inquinante quale l'auto.
Secondo il rapporto Ispra 2022 il consumo di suolo delle strade pavimentate in Italia rappresenta ben l'8,63% del totale, il secondo in ordine di grandezza tra quelli permanenti, dopo i fabbricati. Anche a livello nazionale è un dato in ascesa, anno dopo anno.
E adesso spiegate cosa avete da festeggiare, cari amministratori del sacro asfalto.
Sul consumo del suolo e il dettaglio dei suoi enormi rischi ecologici però mi riprometto di dedicare un capitolo a parte.
Come ne usciamo? È evidente che la prospettiva per il futuro non è asfaltare e continuare un inutile spreco di suolo. Ma togliere l'asfalto, e dismettere al traffico tratti stradali per darli a tutti, tranne i mezzi a motore. Come per esempio la strada del monte Perone. Portandola allo stato di pista forestale sterrata e percorso ciclopedonale, e riportando l'area alla verginità ecologica primigenia. Ovviamente non si tratta di interdirla a nessuno, ma semplicemente dire che se si vogliono godere le sue bellezze, si deve farlo solo a piedi o con mezzi ecologici.
Inoltre dismettere o ridimensionare al traffico significa concentrare più risorse su quelle arterie principali, esse sì basilari per i collegamenti, e quindi più fondi per la loro manutenzione e miglioramento.
D'altra parte la dismissione di strade non è così strana neanche all'Elba. La strada sterrata di Fonza oggi non è più praticabile dai mezzi, è diventata uno splendido percorso ciclo-escursionistico, si è ricollocata in un ciclo ecosistemico, e non si lamenta nessuno. Stesso discorso per la strada Sant'Ilario-Acquacalda. Idem per la bella strada Literno-Colle Reciso. O l'Acquabona-Picchiaie. O l'Acquaviva-le Cime. E in un recente passato erano tutte prove speciali del rally. Avete mai trovato qualcuno che le vorrebbe riaperte alle auto? E allora si può fare anche per altre. La promozione turistica punta giustamente sul cicloturismo. Dunque si tolga asfalto e percorsi alle auto per darli fattivamente a mtb e gravel, oltre che a escursionisti.
Inoltre anche quest'isola non è assolta dal compito di ridurre la Co2 dall'atmosfera. E questo passa anche da un uso minore dei mezzi a combustibile. E da un'altra questione: l'interdizione di essi dai centri urbani. Tema che giocoforza ogni amministrazione isolana dovrà affrontare in tempi brevi. Meglio farlo adesso con piani graduali, in modo da permettere ai residenti una transizione morbida, facendone apprezzare gradualmente i vantaggi. Ma una transizione da completarsi in 1 o al massimo 2 anni.
A questo proposito sono illuminanti le parole che Umberto Eco scriveva già nel 1998 in una “Bustina di minerva”, rubrica che teneva sull'Espresso: “Vi ricordate le grida di sdegno e di dolore dei commercianti quando si parlava di creare le prime zone pedonalizzate? Il ragionamento era che, non potendo arrivare in auto, i clienti avrebbero disertato i negozi. Ora sappiamo che le zone pedonalizzate sono quelle dove s'infittisce il commercio. Magari ciò ha costretto un gommista a lasciare il centro per spostarsi dove c'è transito automobilistico, ha messo in imbarazzo certi esercizi favorendone altri, ma statisticamente (e quindi scientificamente, avendolo provato sul lungo periodo) sappiamo ora che la maggioranza dei commercianti aveva torto. Caso mai accade il contrario, che un eccesso di negozi rovini la bellezza di certe zone storiche. Capisco che i due problemi non sono commensurabili, ma entrambi ci dicono che, su questioni in cui gioca una lenta vicenda di ipotesi, prove e controprove, non sempre l'opinione pubblica è un'autorità attendibile, perché pensa spesso troppo in fretta”.
Insomma, per concludere questo primo capitolo possiamo invitare gli automobilisti a seguire una perla di saggezza, oserei dire, quasi confuciana: Scendete da bordo, cazzo!
Andrea Galassi