Il primo impatto umano significativo che il territorio dell'Elba ha subìto si ha in epoca antica, molto probabilmente villanoviana. Le precedenti genti forse hanno modellato solo marginalmente l'ambiente isolano, adattandolo a colture e pastorizia, ma senza grossi sconvolgimenti. È però con l'impianto delle prime ferriere, voraci consumatrici di carbone di legna, che si intacca profondamente il patrimonio vegetale dell'isola.
Gino Brambilla però ipotizzava che gli etruschi avessero un approccio ecologico, non praticando un taglio indiscriminato, ma un uso razionale dei boschi dell'isola. Tralasciando la parola “ecologia”, che non aveva senso in epoca antica, è un'ipotesi valida: è in effetti possibile che sia gli etruschi che i romani avessero un approccio pragmatico per la gestione delle riserve boschive dell'isola, in modo da garantire sempre una riserva di legna sufficiente per le ferriere. Forse dovrebbe essere valutato meglio il luogo comune, secondo il quale l'attività fusoria fosse totalmente spostata a Populonia, perché l'isola non aveva più legna per alimentare i forni.
È forse in epoca medievale che l'attività fusoria si rivelò più dannosa per la vegetazione elbana, depauperando il territorio di molte aree forestali. Potrebbe essere per questa ragione che si rese necessario mettere sotto stretta tutela alcuni boschi, come dimostra il caso del Gualdo, a Capoliveri. Esiste infatti un ordine pisano, che dà precise disposizioni sulla coltivazione e la conservazione del bosco della località capoliverese.
Altro fattore che modella il paesaggio dell'isola è l'agricoltura. Spesso pensiamo a essa in senso totalmente positivo, per niente impattante sul territorio. Ma scientificamente è anch'essa un elemento perturbante dell'ambiente, spesso una grave alterazione dell'assetto idrogeologico e una distruzione di ecosistemi rarissimi. Al di là delle suggestioni romantiche, è un'attività umana, e come tale ha pro e contro. Praticata dalle genti elbane almeno fin dall'età del Rame, è difficile dire quando raggiunga un'importanza tale da interessare gran parte del territorio isolano. Forse in epoca romana, quando i vini elbani vengono celebrati da Plinio il vecchio. Forse in epoca medievale e rinascimentale, quando la popolazione isolana supera rispettivamente i 5mila e i 10mila abitanti. Tutte bocche da sfamare e braccia da impiegare in lavori che garantissero la sussistenza.
Anche nell'Elba agricola ci sono luci e ombre. Le coltivazioni, soprattutto quelle a cereali e viti, crescono a danno della vegetazione naturale, contribuendo a deforestare e a cancellare definitivamente importanti ecosistemi dell'isola. E alterando gli equilibri idrogeologici di essa. Dall'altro lato i vigneti creano un paesaggio artificiale, con muri a secco e terrazzamenti, ma non in senso solo negativo. Le valli terrazzate diventeranno uno dei panorami più suggestivi dell'isola, in alcuni casi, come quelle dei fianchi e le valli del massiccio del Capanne, capolavori dell'ingegno contadino. Inoltre gli elbani gestiscono molto efficacemente la tenuta idrogeologica delle loro campagne, soprattutto quelle in pendice, realizzando canaletti e gore di scarico delle acque piovane, regimentando con grande perizia i fossi tramite muri a secco. Inoltre, in molti casi, gli stessi muri a secco, grazie alle loro caratteristiche, diventano un moltiplicatore di biodiversità e un arricchimento della vita vegetale e animale. Non a caso oggi sono considerati patrimonio immateriale dell'Unesco.
Un altro fattore di destabilizzazione del territorio è connesso alla pastorizia. Anch'essa, come l'agricoltura, inizia all'Elba almeno dall'età del Rame. Per creare pascoli per gli armenti, da secoli i pastori si servivano del fuoco, appicando disastrosi incendi per distruggere la macchia e favorire solo la crescita di praterie. All'Elba molte di esse, come quelle dei monti riesi, sono frutto di questa secolare pratica di incendi. Ma la distruzione della vegetazione, soprattutto quella di medio e alto fusto, con un esteso apparato radicale, causava lo scioglimento del suolo e quindi un pericoloso dissesto: bastava una pioggia abbondante, e decine di metri quadrati di pendici bruciate franavano rovinosamente. La piaga degli incendi era talmente diffusa che dal Medioevo al Settecento si trovano numerosi severi bandi, sia pisani che del principato di Piombino, per punire i piromani. Una piaga che è arrivata fino ai giorni nostri, adesso praticata per mera inciviltà, non certo per ragioni di pastorizia, dove c'era almeno una giustificazione: la sopravvivenza economica dei pastori.
Nel corso della storia elbana un peso enorme sull'assetto idrogeologico hanno le escavazioni minerarie. Grazie alla sua ricchezza geologica, l'isola ha subìto un'attività estrattiva massiccia. Soprattutto quella ferrifera, millenaria, che copre tutte le fasi storiche, fino all'ultima, devastante dal punto di vista ambientale, quella industriale. Ma anche quella, altrettanto antica, del granito; quelle di vari calcari, e in tempi recenti, ancora attive, di caolino ed eurite. Se dal punto di vista sociale questa lunga attività è stata vitale per la sopravvivenza di molte generazioni di elbani, da quello geologico ha contribuito a rendere molte zone franose e instabili, spesso per molti anni, rendendo necessari talvolta costosi interventi di contenimento. Come abbiamo visto nella prima parte, se circa il 40% dei riesi, in gran parte di Rio Marina, sono in fascia alta di rischio frane, è proprio a causa dei continui dissesti provocati al loro territorio dagli scavi minerari.
Dunque gli elbani del passato hanno per il loro territorio un duplice approccio. Da una parte lo cambiano profondamente, anche esponendolo (ed esponendo se stessi) a grossi rischi idrogeologici, dovendo però giocoforza strappare da esso la sopravvivenza. Dall'altra lo fanno con uno spirito pragmatico, cercando di limitare al massimo il rischio che quella natura possa sfuggire di mano. I quattro fattori presi in esame cesseranno di modellare l'isola in anni molto recenti. Ma come vedremo nell'ultima parte, gli elbani spesso gestiranno male i problemi idrogeologici lasciati in eredità.
E in più ci aggiungeranno carichi che complicano dannatamente la situazione.
Andrea Galassi