Mi dice un anziano: “Quand'ero bambolo, quando di notte pioveva, mettevo la testa sotto il cuscino e continuavo a dormì. Ora, quando sento piove', mi alzo e giro pe' casa preoccupato”. Osservo che anche in passato c'erano alluvioni devastanti. Per esempio a Marciana Marina, nel 1899. Mi risponde: “Sai qual è la differenza? Che allora 'un ci s'aveva nulla. Ti poteva barà il magazzino, l'orto, du' saltini. Tè, a le brutte la casa. Ma un muretto a secco lo ritiravi su in una giornata, il magazzino e la casa in una settimana o due. E poi che perdevi, che 'un c'avevi nulla? Oggi se ti bara la casa, la rifai in un anno, se va bene. Ma ti tocca andà a sta' pe' un anno in baracca. E se l'acqua ti porta in mare la macchina, come fai? Oggi ci s'ha tutto. Co' un'alluvione passi da avè tutto a 'un avè più nulla, da un giorno all'altro”.
Con questa analisi impeccabile, l'ultima parte del capitolo si potrebbe esaurire qui. Il limes tra il prima e il dopo il boom turistico è tutto in quelle parole. Ma per capire meglio come siamo arrivati alla situazione attuale, scendiamo nel dettaglio.
Nel dopoguerra l'agricoltura elbana entra in una crisi nera. Ettari di terra coltivata, anche piccoli orti di famiglia, sono abbandonati. Secondo il censimento agricolo del 1970 la superficie rurale (in cui sono inclusi i pascoli e le aree forestali produttive, come i castagneti e le macchie dove si praticava il taglio di legna da ardere e carbone) è di 14mila ettari, circa il 60% dell'isola. In drastico calo rispetto a dieci anni prima, che assommava a circa 21mila ettari, quasi il 90% del totale. Ma secondo la rilevazione del 1970 sono effettivamente coltivati solo 4411 ettari. Addirittura uno studio dell'Italsider calcolava, con il supporto di foto aerogrammetriche, che nel 1975/76 gli ettari coltivati fossero appena 1200.
L'abbandono dei suoli agricoli rappresenta un grosso rischio idrogeologico. Da un lato i terreni sono sciolti da arature e zappature, ancora troppo recenti. Basta quindi una pioggia abbondante per provocare frane. Dall'altro i canaletti di scolo e i muri a secco non hanno più manutenzione, e iniziano a sgretolarsi, col rischio di frane di pendici. Una piena rischia di distruggere gli argini e portare terra e sassi a valle. I fossi inoltre non vengono più puliti e tornano a coprirsi di vegetazione. Cosicché l'acqua trova un percorso spesso ostruito, aumentando la forza distruttiva. In passato gli elbani pulivano gli alvei, non solo per prevenire rischi di piena, ma perché la loro acqua era basilare per lavori agricoli e attività diverse. Soprattutto le canne, che formano fitte coperture dei fossi, erano tagliate anche perché necessarie per le palature delle vigne.
La natura ha un ruolo importante nel consolidamento dei suoli. Ma ha un ciclo di ricolonizzazione diverso area per area. Il versante nord dell'isola, più fresco e umido, vede uno sviluppo più veloce della vegetazione, spesso con ampi boschi di leccio, coprire pendici e terrazzamenti, dando un benefico effetto di consolidamento. Ma il versante sud, più secco e soleggiato, vede i terreni colonizzati in gran parte da gariga, che serve a poco per risolvere i rischi idrogeologici.
In questo caso intervengono le istituzioni con dei rimboschimenti, soprattutto a pini. I lavori vengono effettuati anche per una ragione sociale: si cerca di alleviare una situazione di pesante disoccupazione che il dopoguerra ha lasciato, con gli altiforni chiusi, le miniere che inizialmente non girano a pieno regime e il turismo che ancora non è un grosso volano occupazionale. Anche in questi interventi ci sono luci e ombre. Da una parte frenano il rischio idrogeologico. Inoltre dopo molti secoli di varia attività umana contro la vegetazione, l'isola torna a conoscere una copertura boschiva significativa (calcolata, macchie comprese, nel 51% dell'intero territorio), creando paesaggi naturali di grande suggestione. Ma dall'altra parte si fanno scelte discutibili. Alcune specie impiantate sono infestanti e aliene all'ambiente naturale elbano: piante esotiche, come le acacie e le robinie, che formano anche bei paesaggi vegetali, come a Calamita e nei boschi in località San Lorenzo (Marciana), ma in forte e deleteria competizione con le specie autoctone. Inoltre la scelta di piante resinose come i pini per i rimboschimenti diventa una seria minaccia in anni in cui esplode la piaga degli incendi. Molti roghi sono disastrosi quando attaccano le pinete, perché riportano, in alcuni casi peggiorando la situazione, i terreni alle condizioni franose. Inoltre, mentre le specie tipiche della macchia hanno una capacità di ricolonizzazione abbastanza veloce, le pinete attaccate dal fuoco sono distrutte irrimediabilmente, lasciando il suolo incapace di sviluppare presenze arboree. Così le aree percorse da incendi non solo diventano franose già poche settimane dopo, con le prime piogge autunnali, ma in molti casi movimenti di terra dilavata continuano anche dopo diversi anni dall'incendio.
Anche la massiccia apertura di strade rappresenta spesso un rischio idrogeologico. Dovendosi intaccare pendici molto ripide e spesso formate da rocce friabili, i rischi di frane si fanno seri. E quindi occorrono lavori di consolidamento non facili e onerosi. Aperte inoltre quando le condizioni di traffico erano molto minori e con meno mezzi pesanti in circolazione, senza essere adeguatamente consolidate, hanno spesso mostrato pericolosi cedimenti. Alcuni esempi. L'anello occidentale comportò uno sconvolgimento di pendici granitiche fragilissime. La strada ha reso alcune zone, in molti tratti, ad altissima pericolosità di frane. La strada del Piano, a Rio Marina, invece fu realizzata su terreni alluvionali, per secoli coltivati e regimentati per consentire l'attività di mulini. E infatti in anni recenti un tratto ha ceduto.
Ma è il cemento che sconvolge in modo drammatico il paesaggio dell'isola. Analizzeremo nel dettaglio la questione nel capitolo sul consumo del suolo. Qui vedremo solo gli sconvolgimenti idrogeologici che la cementificazione ha causato. Sono due gli aspetti da considerare: l'urbanizzazione e l'edilizia sparsa. La prima riguarda ovviamente i paesi, ma non solo. I centri urbani si ingrandiscono molto, pur non esistendo una reale esigenza demografica (anche questo lo analizzeremo meglio a suo tempo): le marine occupando tutte le piane alluvionali su cui sorgono, avvicinandosi pericolosamente ai fossi; i paesi collinari attaccando pendici ripide, fino a pochi anni prima coltivate, quindi con un terreno non adeguatamente consolidato.
Ma nel dopoguerra l'urbanizzazione, di esclusivo carattere turistico, riguarda anche le località che si affacciano sulle spiagge. Queste zone hanno tutte una cosa in comune: gli arenili e le piccole piane che ne formano il retroterra sono di origine alluvionale, create da un fosso (raramente due o più) di natura stagionale. I rischi idrogeologici di questa situazione erano noti agli elbani del passato, ignorati dai figli, ormai obnubilati dalla rapacità del profitto turistico. Così i retrospiagge e le immediate pendici, fino agli anni '50 coltivati e con una scarsa presenza edilizia, sono in pochi anni sommersi da volumi notevoli di edifici.
Gli alvei dei fossi vengono deviati con svolte inverosimili, e si restringono alla consistenza di un canaletto di scolo, vengono arginati raramente con perizia e spesso pavimentati con cemento. In alcuni casi, soprattutto nelle aree urbane, vengono addirittura intombati. Si crea il paradosso di alvei coperti di vegetazione per gran parte del corso e canali cementati nelle ultime decine di metri. Piogge estreme creano quindi situazioni esplosive, con volumi d'acqua che rallentano in certi tratti per accelerare un istante dopo. E quando impattano su ciò che li rallenta, la forza è devastante.
Inoltre il cemento attacca il suolo di pendici e coste in maniera sparsa e caotica. E anche questo è un rischio idrogeologico. Perché gli sbancamenti avvengono su pendici ripide, fino a pochi anni prima coltivate. Quindi su suoli che presentano un mix micidiale: sono ancora suoli sciolti dai lavori agricoli, con terrazzamenti abbandonati e in costante pericolo di smottamenti. Spesso non si tiene neanche conto del tipo geologico di suolo su cui si costruisce, se è adatto all'edificabilità.
Nessuno si preoccupa più dei rischi. Non certo chi costruisce abusivamente, e non certo per necessità abitative. Ma anche chi costruisce con le carte in regola. Perché c'è un problema enorme: le politiche edilizie dei comuni elbani. Da sempre lassiste, approssimative, inadeguate, nel migliore dei casi. Nel peggiore mancanti di visioni globali e future, o legate a visioni puramente elettoralistiche e di bassi interessi. Un problema culturale, per dirla gentilmente. Un genocidio culturale, per essere brutali.
Andrea Galassi