Quante volte abbiamo sentito lo straziante dilemma: l'Elba è autosufficiente dal punto di vista idrico? Per una risposta, interpelliamo prima il passato, e poi vediamo se il presente può imparare qualcosa da esso, o il boom turistico ci costringe a percorrere una strada nuova.
Dunque, in passato l'Elba era autosufficiente di acqua? Sì. Anzi, gli indicatori storici dimostrano che sorgenti e fossi erano molto più abbondanti del fabbisogno delle società elbane. Ma occorre anche considerare che in certe aree dell'isola e in certe fasi storiche l'approvvigionamento idrico poteva diventare un problema. Vediamo le questioni con ordine.
Partiamo dall'epoca romana. Grazie alle recenti scoperte di Franco Cambi e i suoi collaboratori, l'area delle Grotte dimostra che questo sito era qualcosa di più sensazionale di una semplice villa. Era profondamente legato all'acqua, che molto probabilmente veniva raccolta per rifornire il traffico navale in sosta nella rada di Portoferraio. E quindi ci sarebbe la dimostrazione che l'acqua delle sorgenti circostanti, non solo era sufficiente per la società stanziale, ma poteva essere anche sfruttata per un bisogno esterno all'isola.
Un altro dato significativo che copre non solo il mondo antico ma anche quello medievale sono i punti di fusione del ferro sull'isola. Abituati ad associarli al fuoco, trascuriamo che la presenza di acqua era fondamentale per essi. Serviva per l'impasto dei materiali da costruzione dei forni, per il lavaggio dell'ematite da fondere e dei lingotti di ferro ottenuti, e per la carburazione, ovvero la martellatura a caldo per rendere il ferro meglio temprato. Quindi una ferriera aveva bisogno di metri cubi d'acqua per funzionare. Non a caso sia le ferriere romane che quelle medievali sorgevano dentro valli: più vicine al loro sbocco al mare, le prime; più in altura, le seconde. Le valli che presentano tracce di questi siti sono sparse su tutto il territorio elbano, a testimonianza che quasi tutti i fossi dell'Elba erano ricchi di acqua. E che essa non serviva solo alle esigenze primarie delle genti dell'isola, ma anche a un vivace settore produttivo. Con un ulteriore dimostrazione che l'isola era non solo autosufficiente, ma addirittura in sovrabbondanza di acqua.
I paesi collinari storicamente sorgono vicini a sorgenti, in alcuni casi anche eccezionalmente abbondanti, come quella di Rio Alto. Non solo non ebbero mai problemi di approvvigionamento, ma quando nacquero le loro marine, queste poterono contare senza problemi sulle stesse sorgenti. Anche quando le marine ebbero un boom demografico nel corso dell'Ottocento, le riserve idriche non vennero meno.
Per molti secoli il rifornimento avveniva attingendo acqua alla fonte. Siamo lontani anni luce dall'acqua corrente in casa. L'acqua che vi entrava, tramite brocche, era quella sufficiente per i bisogni primari: bere, mangiare e lavarsi. Per essi lo sfruttamento delle riserve idriche era una percentuale irrilevante. Ma questo non significa che il grosso finisse semplicemente in mare. Il rapporto degli elbani del passato con l'acqua non finiva ai bisogni primari.
Una fonte abbondante come quella di Rio alimentava anche il lavatoio pubblico. Chi aveva un terreno a pochi metri da un fosso si costruiva un piccolo lavatoio privato, alimentato dal corso d'acqua. Il lavatoio era una presenza immancabile anche accanto ai pozzi alla romana. Quegli elbani che non avevano lavatoi portavano i panni a lavare direttamente nei fossi. Mi dicevano gli anziani capoliveresi che le loro mamme caricavano la cesta dei panni sulla testa, e li portavano al fosso del Pontimento. E aggiungevano una cosa importante, a dimostrazione che l'acqua non mancava: “Prima il fosso correva 9 mesi all'anno, anche 10 a volte, mica come ora”.
Inoltre in passato era fondamentale lasciare che le sorgenti alimentassero il più possibile i fossi. Essi erano la vita economica delle comunità. I fossi azionavano i mulini. Fornivano acqua per innaffiare orti e frutteti. Consentivano un'attività importantissima: la macerazione del lino e della canapa. Un periodo prolungato di siccità era per quelle società una catastrofe economica, oggi paragonabile a un prolungato black out elettrico.
Per gli elbani del passato i fossi dovevano funzionare come un orologio: dovevano correre almeno 7 od 8 mesi l'anno per assicurare il pane, non erano permesse sottrazioni di acqua indebite o inquinamenti di esse. Non a caso un'attività inquinante come la macerazione dei tessuti era regolata in modo severo dagli statuti comunali.
Ecco un episodio significativo di quello che comportava interrompere un corso d'acqua o inquinarlo. Nel 1855 entrò in funzione la prima laveria di minerale, nel cantiere Bottaccio della miniera di Rio Marina. L'acqua era presa dal fosso della valle dei Mulini, poco sotto Rio Alto, convogliandola in una gora di 490 metri. Il fosso però alimentava anche diversi mulini e serviva per irrigare molti orti. E questo provocò molti malumori nei riesi che rischiavano di veder andare in malora le proprie attività. Perciò la direzione delle miniere dovette garantire che l'acqua ritornasse al fosso, e rigorosamente depurata dagli scarti di lavaggio.
Non tutti i paesi però potevano contare su abbondanti riserve idriche: ecco il caso di Portoferraio. Fin dalla sua fondazione, nel 1548, il rifornimento idrico rappresentò un problema per gli ingegneri granducali, cui dovettero sopperire con la costruzione di grosse cisterne per la raccolta di acqua piovana. Sarebbe veramente interessante ripercorrere tutti i progetti pensati per assicurare l'acqua al centro, che coprono ben tre secoli e mezzo, ma non è questa la sede. La città fu dotata di un acquedotto nel 1890, sfruttando l'acqua della valle di Lazzaro, ma si dimostrò inefficiente. Così nel 1904 ne fu progettato un altro, molto più lungo, che attingeva a una sorgente sul poggio San Prospero, sulle pendici campesi del monte Perone, e che fu inaugurato il 14 aprile 1912.
Anche Capoliveri nella prima metà del Novecento ebbe problemi di rifornimento idrico. Non bastavano più le vicine fonti di Ravigoli e Sebaldo, a cui i capoliveresi scendevano da secoli per attingere l'acqua. Raccogliendo le magre sorgenti del monte Calamita, soprattutto quella delle Cavallacce, fu portata l'acqua in centro, alla fontana dei Canali. Ma nel dopoguerra il paese ebbe bisogno di un vero e proprio acquedotto. Però non esistevano nel territorio comunale polle abbondanti. Fu quindi sfruttata quella dei Catenacci, in territorio comunale portoferraiese, e anche in questo caso fu realizzato un lungo acquedotto, grazie ai fondi della Cassa del Mezzogiorno, entrato in funzione nei primi anni '50. Anche Porto Azzurro ebbe bisogno di una conduttura di qualche chilometro, dovendo andare ad attingere alle sorgenti del fosso dell'Acquaviva. Per gli altri paesi gli acquedotti poterono sfruttare le storiche fonti vicine.
Di altri esempi storici, anche minori, potremmo farne a bizzeffe, a dimostrazione che gli elbani vivevano in un'isola ricchissima d'acqua e sapevano gestirla benissimo, sia dal punto di vista dei bisogni primari, sia da quello produttivo. Adesso però dobbiamo entrare nella seconda metà del XX secolo, che cambierà la storia, come vedremo nella seconda parte.
Andrea Galassi