Nel dopoguerra la situazione demografica isolana è questa: una popolazione di poco meno di 30mila elbani, aumentata rispetto ai primi del secolo, soprattutto a Portoferraio, dove era più che raddoppiata in un ventennio, superando i 10mila abitanti. L'acqua corrente è pressoché nelle case di tutti. E le riserve idriche dell'isola sono più che sufficienti. Hanno retto persino il consumo di un'industria, quale gli altiforni.
A questo proposito è interessante uno studio di fine anni '70 dell'allora comunità montana, elaborato per un quadro conoscitivo più ampio, commissionato dalla giunta regionale toscana. Nel capitolo Acquedotti si legge: “Attualmente i comuni dell'Associazione [intercomunale] sono serviti da impianti che sfruttano pozzi e sorgenti locali. Gli impianti esistenti sono: uno a Campo nell'Elba per 14.000 abitanti; uno a Capoliveri per 13.900 abitanti; uno a Capraia per 400 abitanti; uno a Marciana per 11.000 abitanti; uno a Marciana Marina per 3.900 abitanti; uno a Porto Azzurro per 8.700 abitanti; uno a Portoferraio per 39.000 abitanti; uno a Rio Marina per 8.700 abitanti; due a Rio nell'Elba per 2500 abitanti”. Se rapportiamo questi dati alle popolazioni comunali dell'epoca vediamo che il comune più “povero” d'acqua, Marciana Marina, contava su una riserva idrica doppia rispetto al fabbisogno; Campo nell'Elba, Porto Azzurro, Rio Marina e Rio nell'Elba tripla; Portoferraio quadrupla; e addirittura Capoliveri e Marciana per una popolazione ben cinque volte superiore.
Un altro report della comunità montana, stilato una decina d'anni dopo, che censiva le sorgenti dell'isola, stimava che la produzione complessiva di esse era 400mila metri cubi annui, il 6% dell'acqua immessa negli acquedotti elbani. Il grosso però viene da pozzi. Secondo l'Autorità idrica della Toscana il volume totale di acqua elbana sfruttata nella rete è di circa 9 milioni di metri cubi annui, quasi equamente divisi tra acquedotti pubblici e impianti privati.
Eppure nonostante numeri così importanti in quegli anni l'isola precipita in una stagione di crisi idriche estive. Cos'è successo? Negli anni '70 i turisti sfondano quota un milione annuo. E le riserve idriche vanno in sofferenza. Ma non c'è solo questo fattore. C'è di peggio.
Il primo aspetto da considerare è la cattiva programmazione. Già negli anni '50 tutti sanno che la prospettiva è quella del turismo di massa, cioè dei grandi numeri. E nessuno calcola che le risorse dell'isola non possono reggere i grandi numeri. Nessuno si attrezza per tempo. Quando arriva il grande consumo idrico, l'isola si scopre drammaticamente impreparata. L'unica soluzione nell'immediato è il ricorso alle bettoline, navi cisterna che devono portare acqua dal continente.
Questa misura tampone andrà avanti diversi anni, fino all'allacciamento dell'isola al continente tramite una condotta sottomarina, che porterà altri 5 milioni di metri cubi annui d'acqua delle falde della Val di Cornia (attestando quindi il rifornimento idrico totale dell'isola a ben 14 milioni di metri cubi annui, secondo i dati dell'Autorità idrica Toscana). Ma anche questa soluzione mostra i suoi limiti. Innanzitutto la conduttura richiede una manutenzione costante, non facile e onerosa. E inoltre ci sono periodi che anche le falde della Val di Cornia vanno in sofferenza, soprattutto in estate, e si rende necessario diminuire la distribuzione.
Ma non c'è solo il boom turistico a pesare, c'è anche quello edilizio. A fianco di una popolazione residente stabile, corre un'impennata di case e ville. Ovviamente tutte con un allaccio idrico. E un consumo di acqua che lievita in un amen. Per quanto moltissime siano stagionali, e quindi abitate in periodi brevi dell'anno, hanno però bisogno di manutenzione, i giardini consumano grosse quantità di acqua, le cisterne devono essere riempite e spesso pochi giorni dopo svuotate. E c'è di peggio: i comuni non si preoccupano minimamente di rilasciare licenze edilizie per quelle che, per consumo di suolo e di acqua, sono uno dei peggiori crimini ecologici (sì, avete letto bene: crimini. E ci sono andato piano). Le piscine.
Ma pesa anche un cambio culturale devastante. I nuovi elbani perdono totalmente il rapporto che i loro nonni avevano con l'acqua. Essa non è più vista come elemento basilare di sussistenza, ma superfluo. Quindi da sprecare in futilità. L'acqua corrente in casa, che appena una generazione prima era considerata una conquista sociale, diventa una cosa scontata e inesauribile. Come abbiamo visto nella prima parte, gli elbani del passato consideravano il ciclo naturale dell'acqua un orologio da far funzionare con precisione, sfruttandolo e adattandolo nel suo percorso dalle piogge al mare. La logica era: si prende l'acqua che ci serve e lasciamo il resto al suo naturale corso. Le sorgenti e i fossi erano patrimonio comune e liberi di correre. E questo indirettamente era un mirabile fattore di mantenimento di biodiversità e vita vegetale e animale, anche molto rara, negli alvei e in prossimità delle fonti naturali.
Quando arriva la grande carenza cambia tutto. In maniera devastante. Per sopperire alla crisi, tutte le sorgenti vengono intubate (talvolta da privati, e quindi illegalmente) e le ricche falde vengono sfruttate allo sfinimento, in alcuni casi fino al prosciugamento. Un esempio? Provate a fermarvi a bere alla Fonte Coppi di Rio, fino a pochi anni fa copiosa d'acqua... e tanti auguri se adesso ci riuscite. Questo significa che i fossi non vengono più alimentati dalle fonti, ma solo dalle piogge, calando drasticamente la loro portata e il periodo di attività. E addio biodiversità. Chissà cosa avrebbero pensato quelle lavandaie che potevano contare sulla loro acqua per 9 mesi l'anno.
Come stupirsi se quella che per secoli è stata sovrabbondanza diventa carenza? Nella terza e ultima parte del capitolo vedremo se è possibile uscire da questo incubo, che dovrà fare i conti con un'altra devastante criticità.
Andrea Galassi