“Non c'è un giusto 'governo del popolo', che non sia al tempo stesso un giusto e autentico 'governo del territorio'. Le due cose sono incardinate una nell'altra, non c'è popolo senza territorio, non c'è territorio senza popolo, le due cose possono crescere, ma solo una nell'altra”. Questa sensata osservazione di Alberto Asor Rosa purtroppo non ha trovato molto consenso nella politica italiana. Men che meno in quella elbana, dove le due cose si sono incancrenite in un spregiudicato consenso elettorale.
Nella prima parte abbiamo visto il consumo di suolo connesso ai conglomerati urbani (o pseudourbani). A complicare la questione si aggiunge l'edilizia sparsa. Fortemente impattante sulle coste e pendici collinari panoramiche, questo fenomeno ha riguardato soprattutto il comune di Capoliveri, detentore di una lunga e suggestiva fascia costiera, quindi appetibile dal mercato immobiliare. Gli altri comuni sono stati interessati in misura minore, ma non certo per politiche più virtuose e lungimiranti. Solo perché detentori di una lunghezza costiera più limitata, o perché esposti sulla costa nord (meno aprica di quella sud), ma soprattutto per le condizioni geografiche: i comuni di Marciana e Rio sono stati penalizzati, pur avendo un lungo sviluppo costiero, essendo formato in gran parte da scogliere in forte pendenza.
Nella storia del turismo avevo già affrontato l'argomento, ma in questa sede penso sia bene tornarci più in dettaglio. Questo tipo di edilizia sparsa, che ha impestato (pardon, signori borghesi: caratterizzato) le coste e le pendici, è favorita dall'estrema polverizzazione del patrimonio fondiario elbano. La mappa catastale dell'isola mostra aree con un'infinità di particelle, un mosaico a piccolissime tessere, fondi anche di poche decine di metri quadrati. Si trattava principalmente di orti e piccoli vigneti famigliari. Infatti quasi tutti gli elbani, anche quelli di condizione sociale umilissima, possedevano una proprietà terriera.
Quando nel dopoguerra le coltivazioni vengono abbandonate, questi terreni diventano occasioni immobiliari ghiotte, affacciandosi su meravigliose coste, spiagge, angoli suggestivi e panoramici. A differenza che nel continente, all'Elba il mercato immobiliare non ha nemmeno bisogno di lottizzare: proprio per la sua estrema polverizzazione il territorio è già apparecchiato in lotti di ogni dimensione. Non c'è neanche bisogno di svalutare: non esiste più un valore agricolo, quello immobiliare è solo in divenire. È il paradiso di ogni speculatore: si compra per una miseria, e ci si ritrova un bene immobile inestimabile in prospettiva futura. È il via a una cementificazione intensa e incontrollata, che i comuni o non gestiscono efficacemente o si disinteressano. Ed è la Disneyland dell'abusivismo (come vedremo in un altro capitolo).
Il fenomeno conosce due fasi. Quella iniziale, che copre gli anni '50 e parte dei '60, vede un mercato per così dire esterno. Molti borghesi dell'Italia centro-settentrionale, ma anche stranieri (soprattutto tedeschi e svizzeri), acquistano i terreni per cifre irrisorie, talvolta da proprietari diversi ma contigui, e costruiscono ville e dependances, finanche scali marittimi privati. Il secondo periodo interessa soprattutto gli elbani. I terreni abbandonati da padri e nonni contadini, vengono adesso conservati ed edificati. Da case di proprietà, in cui si va a vivere, abbandonando gradualmente i centri urbani. Ma soprattutto da strutture ricettive: inizialmente piccoli appartamenti, economici e di semplice realizzazione (tanto che spesso vengono tirati su dagli stessi proprietari); poi sempre più grandi, lussuosi e strutturati.
In grande maggioranza è un'edilizia esteticamente brutta, dozzinale e pressoché omologata. Nel giro di pochi anni gli elbani abbandonano o distruggono un'edilizia rurale umile e spartana, ma di mirabile essenzialità e dai caratteri unici. Entrare nei cascinali originari, oggi purtroppo ridotti in rudere, è come immergersi in una spazialità elementare, ma in cui ogni camino, canterale o palmento danno subito l'idea di funzionalità delle stanze; conferiscono loro una perfezione, in cui tutto è necessario e utile. Le aie esterne, coi loro lastricati, pergolati e murelle, sono uno spazio di condivisione lavorativa e famigliare. È vero, sono strutture anch'esse pressoché tutte uguali, ma frutto di una cultura basata sulla primarietà dell'abitare e del lavorare, sulla frugalità della vita. Gran parte della nuova edilizia, oltre che brutta, è in gran parte il contenitore di cose e angoli superflui, status symbols. Un'uniformità ieri imposta dalla povertà, ma così genuina, oggi dal consumismo, e quindi conformista. I proprietari sembrano seguire la logica efficacemente descritta da una canzone di Frankie hi-nrg: “in costante escalation col vicino costruiscono, parton dal pratino e vanno fino in cielo, han più parabole sul tetto che san Marco nel vangelo”.
E poi ci sono i borghesi di alto bordo, talvolta riuniti in società create ad hoc, che fiutano l'affare turistico e lo vogliono sfruttare al massimo. E scoppia la corsa all'edilizia di residences, campeggi e alberghi. Ma spesso non strutture semplici, bensì sovradimensionate: volumi di migliaia di metri cubi, palazzi multipiani o estesi su grandi spazi col costo di enormi sventramenti di pendici e coste. Troppo sovradimensionate per un'isola piccola, come rilevava acutamente Gin Racheli, che fin dagli anni '70 ne denunciava l'incompatibilità, gli errori e i limiti di questo tipo di “sviluppo”. E fu buona profetessa: perché oggi quegli ecomostri hanno quasi tutti fallito come hotel, e hanno dovuto esssere riconvertiti in condomini.
Il consumo di suolo e risorse di quel mezzo secolo scarso è rimasto devastante per l'isola. Il cemento è stato irrimediabilmente impattante sul paesaggio, andando a intaccare un quarto di coste. Questo rullo compressore cementizio spazza via ogni ambiente naturale, non solo porzioni di coste e pendici. Vengono distrutte aree dunali di pregio: oggi possiamo ammirare solo lacerti di questi ambienti nella sola Lacona, ma mi raccontavano coloro che li avevano conosciuti, di quelli distrutti dietro ogni spiaggia, non solo di una certa lunghezza e con una vasta piana alle spalle, ma anche arenili di appena 200 metri di lunghezza. Sono cementificate zone agricole pianeggianti, in passato strappate agli acquitrini con enorme fatica dai nonni.
Il consumo di suolo diretto ne comporta anche uno indiretto ma non meno impattante. Il boom edilizio ha una voracità di materiali da costruzione. Ed essendo in gran parte lavori effettuati in economia, si deve economizzare. Molto deve essere importato dal continente, ma la rena è gratis e a portata di mano sulle spiagge. L'asportazione di sabbia è massiccia e dannosa per l'ambiente, ruspe e camion ci danno dentro in distruzioni.
E il devastante effetto del consumo del suolo paradossalmente si ripercuote anche sul mare. Il cemento spesso viene spinto a ridosso degli arenili, fin dove arriva l'azione del mare in burrasca. E quando le onde vanno a impattare sui muri, la risacca acquista molta più forza che in condizioni normali, e si porta via sabbia e ghiaia in quantità enormi. Il risultato? Erosione costiera. Spiagge che sono a rischio scomparsa, e scogliere che si sgretolano e franano. Si potrebbero fare molti esempi, come Sant'Andrea, arenile a forte rischio erosione, tanto da richiedere interventi; la spiaggia della Madonna delle Grazie, con un tratto di scogliera interessato da pericolose frane; o come il caso di Galenzana, bellissima spiaggia sabbiosa, originariamente lunga quasi 400 metri, e oggi spezzata in due tronchi dall'improvvida costruzione di un lungo muro, che ha fatto sparire per sempre 200 metri di arenile.
C'è una ragione ben precisa, responsabile di questo inutile consumo di suolo. Ma prima di analizzarla, dobbiamo sgombrare il campo da due alibi tossici che la politica elbana porta a giustificazione del suo crimine ecologico. E lo faremo coi prossimi due capitoli.
Andrea Galassi