Due terzi degli oceani del mondo sono attualmente considerati acque internazionali e, dopo quasi vent’anni di negoziati e 38 ore finali di discussioni defatiganti, l”Intergovernmental Conference on an international legally binding instrument under the United Nations Convention on the Law of the Sea on the conservation and sustainable use of marine biological diversity of areas beyond national jurisdiction (General Assembly resolution 72/249)” tenutasi all’Onu a New York ha approvato lo storico High Seas Treaty. Alla fine di questa maratona negoziale di due settimane, l’ambasciatrice Onu per gli oceani Rena Lee ha annunciato il successo di trattative che sono state più volte a un passo dal fallire.
Il summit era iniziato il 20 febbraio e, nonostante l’architettura dell’accordo fosse sta definita nel precedente vertice ocenico in Uruguay, i negoziati restavano bloccati a causa di disaccordi sui finanziamenti, sui diritti di pesca e sullo sfruttamento delle risorse biogenetiche. Minna Epps, direttrice del team di IUCN Ocean and Coast, ha spiegato che «Il problema principale riguardava la condivisione delle risorse genetiche marine. Le risorse genetiche marine sono materiale biologico proveniente da piante e animali nell’oceano che può avere benefici per la società, come prodotti farmaceutici, processi industriali e cibo. Le nazioni più ricche hanno attualmente le risorse e i finanziamenti per esplorare le profondità dell’oceano, ma le nazioni più povere volevano garantire che tutti i benefici che vengono scoperti siano condivisi equamente».
Robert Blasiak, ricercatore oceanico della Stockholms Universitet evidenzia che «Nessuno sa quanto valgono le risorse oceaniche e quindi come potrebbero essere divise. Se immaginate una grande TV widescreen ad alta definizione, e se solo tre o quattro dei pixel su quello schermo gigante funzionano, questa è la nostra conoscenza dell’oceano profondo. Quindi abbiamo registrato circa 230.000 specie nell’oceano, ma si stima che ce ne siano più di due milioni».
Per sbloccare l’empasse il primo marzo è dovuto intervenire il segretario generale dell’Onu, António Guterres, che ha ricordato alle delegazioni dei governi di tutto il mondo che «Il nostro oceano è sotto pressione da decenni. Non possiamo più ignorare l’emergenza oceanica. Gli impatti del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’inquinamento sono molto sentiti, in tutto il mondo, influenzando il nostro ambiente, i nostri mezzi di sussistenza e le nostre vite. Nell’adottare un accordo solido e ambizioso in questo meeting, potete fare un importante passo avanti nel contrastare queste tendenze distruttive e far progredire la salute dell’oceano per le generazioni a venire. Questo trattato può garantire la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina di oltre due terzi del nostro spazio oceanico che sostiene la vita. Potete aiutare a garantire che le risorse genetiche marine siano accessibili e utilizzate a beneficio di tutta l’umanità. Potete fornire un quadro adeguato per l’utilizzo delle aree marine protette per conservare e gestire in modo sostenibile habitat e specie vitali. Potete garantire che gli impatti ambientali delle attività antropiche siano valutati e pienamente considerati nel processo decisionale. E potete mantenere la promessa di capacity-building e di trasferimento della tecnologia marina, livellando il campo di gioco in modo che tutti gli Stati possano utilizzare responsabilmente e trarre vantaggio da questi beni comuni globali essenziali. All’alba del quinto decennio dall’adozione dell’United Nations Convention on the Law of the Sea, avete l’opportunità di sviluppare ulteriormente la sua eredità. Potete dimostrare che la Convenzione può adattarsi per affrontare le sfide in evoluzione e dimostrare la continua forza e la promessa del multilateralismo. Con flessibilità e perseveranza, potete assicurarvi un risultato che contribuisca a garantire che il nostro l’oceano sarà più sano, più resiliente e più produttivo, a beneficio del nostro pianeta e dell’’umanità».
40 anni fa l’UN Convention on the Law of the Sea aveva istituito le high seas, acque internazionali in cui tutti i Paesi hanno il diritto di pescare, utilizzare rotte marittime commerciali e fare ricerca, ma solo l’1,2% di queste acque è protetto e la vita marina che vive al di fuori di queste aree protette è stata messa a rischio dai cambiamenti climatici, dalla pesca eccessiva e dal traffico marittimo.
Il nuovo UN High Seas Treaty prevede che il 30% degli oceani e dei mari del mondo diventino aree protette, investe più denaro nella conservazione marina e indica nuove regole per l’estrazione mineraria in mare.
Secondo l’ultima valutazione globale dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN), quasi il 10% delle specie marine è a rischio di estinzione. L’Iucn stima che il 41% delle specie minacciate sia influenzato dai cambiamenti climatici e Epps ha sottolineato che «Un po’ più di un quarto dell’anidride carbonica emessa viene in realtà assorbita dall’oceano. Ciò rende l’oceano molto più acido, il che significa che sarà meno produttivo e metterà a repentaglio alcuni specie ed ecosistemi». Il cambiamento climatico ha anche aumentato di 20 volte le ondate di caldo marino, il che può provocare eventi estremi come i cicloni ma anche eventi di mortalità di massa come lo sbiancamento delle barriere coralline. La Epps ha affermato che «Affrontare la questione del cambiamento climatico nel mare implica l’attuazione degli altri accordi globali come l’Accordo di Parigi. Questo è davvero un motivo per avere sinergie e collaborazione tra questi diversi accordi multilaterali che abbiamo visto essere sempre più approvati all’interno delle convenzioni delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici».
Le nuove aree protette, stabilite nel trattato, porranno limiti alla pesca, alle rotte delle rotte marittime e alle attività di esplorazione come l’estrazione mineraria in acque profonde, cioè quando i minerali vengono prelevati da un fondale marino oltre i 200 metri di profondità.
Ngozi Oguguah, del Nigerian Institute For Oceanography and Marine Research, ha ricordato che «Le due maggiori cause [di estinzione] sono la pesca eccessiva e l’inquinamento. Se disponiamo di santuari marini protetti, la maggior parte delle risorse marine avrà il tempo di riprendersi».
Il trattato punta anche a proteggere mari e oceani da potenziali impatti come l’estrazione mineraria in acque profonde. Le associazioni ambientaliste sono molto preoccupate per i possibili effetti dell’estrazione mineraria, come lo sconvolgimento dei sedimenti, l’inquinamento acustico e il danneggiamento dei territori di riproduzione.
L’International Seabed Authority, che sovrintende la concessione di licenze minerarie in alto mare, ha detto alla BBC che d’ora in poi, per andare avanti «Qualsiasi attività futura nei fondali marini sarà soggetta a rigide normative ambientali e supervisione per garantire che siano svolte in modo sostenibile e responsabile».
L’accordo punta esplicitamente a trasformare il 30% delle acque internazionali del mondo in aree protette (AMP) entro il 2030. Ma la discussione su quale debba essere il livello di protezione in queste aree è stata molto aspra e resta un problema irrisolto. Simon Walmsley, chief advisor del Wwf-UK spiega su BBC News: «C’è stato dibattito in particolare su cosa sia un’area marina protetta. E’ l’uso sostenibile o è quando è completamente protetta?». Per esempio, sembra che per raggiungere il 30% di il governo italiano punti a dichiarare mare protetto aree dove è semplicemente vietato fare trivellazioni petrolifere e di dichiarare aree particolarmente protette (il 10%) le attuali Amp – che hanno diverse zone di tutela – e addirittura il santuario dei cetacei Pelagos, che è stato finora solo un confine tracciato sulla carta marittima.
Ma il nuovo trattato Onu prevede che, qualunque sia la forma di protezione concordata, ci dovranno essere restrizioni sul prelievo e le tecniche di pesca praticati, sulle rotte marittime e sulle attività di esplorazione come l’estrazione mineraria in acque profonde, diposizioni per la condivisione delle risorse genetiche marine, come il materiale biologico proveniente da piante e animali nell’oceano. Questi possono avere benefici per la società, come prodotti farmaceutici e alimentari, requisiti per le valutazioni ambientali per le attività in acque profonde come l’estrazione mineraria.
Ma i Paesi in via di sviluppo sono rimasti delusi per il fatto che nel testo non sia stato definito l’importo specifico del finanziamento necessario ad attuare il Trattato. E, nonostante l’accordo rappresenti una svolta, c’è ancora molta strada da fare prima che sia approvato definitivamente e diventi legalmente obbligatorio. Il trattato deve essere adottato una sessione successiva dell’Intergovernmental Conference e poi entrerà “in vigore” solo dopo che un numero sufficiente di Paesi lo avrà firmato e fatto approvare dai rispettivi parlamenti. Per esempio, la Russia -che si temeva bloccasse tutto come ritorsione per le sanzioni contro l’invasione dell’Ucraina – è stato uno dei Paesi che ha espresso maggiori preoccupazioni sul testo finale e anche altri Paesi dovranno esaminare praticamente come queste misure potranno essere attuate e gestite.
Walmsley non naconde una certa preoccupazione: «C’è un equilibrio davvero delicato, se non ci sono abbastanza Stati non entrerà in vigore. Ma per ottenere l’impatto è anche necessario che gli Stati abbiano abbastanza soldi. Stiamo pensando a circa 40 stati per far entrare in vigore il tutto».
La Epps ha concluso: «Questa implementazione è cruciale. Se le aree marine protette non saranno adeguatamente collegate, potrebbe non avere l’impatto desiderato poiché molte specie sono migratrici e possono spostarsi attraverso aree non protette dove sono a rischio».
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