La miriade di puntini luminosi di una notte stellata è stata sempre raffigurata nell’arte incastonandola in una sorta di sfera che chiamiamo la ‘volta celeste’ come ha fatto ad esempio Giotto nell’immagine di copertina, che raffigura la volta della meravigliosa Cappella degli Scrovegni a Padova.
Pensare le stelle nella volta celeste è un immaginario comune ma molto fuorviante perché porta a crederle equidistanti da noi, ordinatamente appiccicate ad una grande cupola che ci sovrasta. Nulla di più sbagliato. In cielo c’è un gran disordine, non esiste alcuna sfera celeste e le stelle sono disposte in modi a volte molto bizzarri, più vicine o più lontane.
Nella prima parte di questa Pillola di Scienza si è detto che siccome la luce, per quanto veloce, partendo da una stella impiega un certo tempo ad arrivare ai nostri occhi, quando osserviamo un corpo celeste non abbiamo la sua fotografia attuale, bensì quella di quando la luce partì per arrivare a noi. Questo ci da la formidabile opportunità di studiare cosa avvenne intorno al Big Bang, la super esplosione che secondo la teoria originò il mondo, osservando stelle così lontane da noi che la luce che ci sta raggiungendo in questo periodo partì da laggiù poco dopo quell’evento.
Abbiamo anche visto che di tutte le radiazioni elettromagnetiche l’occhio umano riesce a percepire solo una piccola parte che chiamiamo ‘luce visibile’, fermandosi ai due estremi del viola scuro e del rosso cupo. Ma ci sono strumenti per “vedere” anche oltre. Ad esempio le normali telecamere da videosorveglianza hanno uno spettro sensibile più vasto di quello umano e riescono ad inoltrarsi nella zona dell’infrarosso.
E proprio l’infrarosso riveste un ruolo basilare per la lettura della luce stellare, ma per capirne il perché dobbiamo andare a scomodare un concetto che ci appare spesso nella vita e sul quale occorre riflettere un po’: l’effetto Doppler. Fu scoperto dal matematico australiano Christian Andreas Doppler, il quale dimostrò che la frequenza di un’onda sonora cambia se la sorgente che la emette e l’osservatore che la ascolta non sono fermi, bensì si muovono l’uno rispetto all’altro. Se per caso sembrasse un concetto complicato, teniamo presente che lo esperiamo ogni volta che un’ambulanza a sirene spiegate passa davanti a noi, vedi Figura 1: il suono della sirena cambia da quando l’ambulanza deve ancora passare a quando si trova alla medesima distanza dopo averci superato. E non stiamo parlando del volume della sirena, ma del tipo di suono percepito ovvero della sua frequenza:
Figura 1. L’Effetto Doppler implica che la frequenza del suono di una sirena ha frequenza più bassa per l’osservatore da cui l’ambulanza si sta allontanando (omino a sinistra) e più alta per quello a cui si sta avvicinando (omino a destra)
L’universo conosciuto è in espansione e ciò è stato dimostrato scientificamente a partire dal 1922 e a seguire, anche utilizzando il nascente know-how della Teoria della Relatività (1). Proprio perché in espansione, le stelle ci appaiono allontanarsi da noi. Ciò diventa abbastanza intuitivo se facciamo un paragone con una torta con l’uvetta. Quando si prepara l’impasto e si infarina l’uvetta per non vederla tristemente precipitare esclusivamente sul fondo della nostra nascente torta, tutti gli acini sono sparsi nell’impasto e sono fermi ad una certa distanza l’uno dall’altro. Poi l’impasto lievita e, come dicono i cuochi, “si gonfia” anche se in realtà “si espande”. Gli acini sono tutti all’interno di un mondo in espansione e quindi lo spazio fra un acino e l’altro cresce durante le fasi di lievitazione e cottura. Se un acino potesse osservare intorno a sé vedrebbe gli altri acini che si allontanano da lui che rimane stazionario rispetto all’impasto, anche se in realtà è quest’ultimo che si sta espandendo.
Così per noi osservatori sull’acino chiamato Terra gli altri acini chiamate stelle si allontanano, anche se la cosa che sta accadendo in realtà è che l’impasto in cui tutti ci troviamo (l’universo conosciuto) si sta espandendo con noi dentro.
Bene, per rimanere in un’analogia culinaria, a questo punto abbiamo proprio tutti gli ingredienti per tornare alle nostre stelle lontane…
La luce proveniente dall’universo remoto in espansione è un’onda elettromagnetica che come tutte le altre subisce l’effetto Doppler e quindi da noi viene percepita a frequenza minore di quella reale, proprio come avviene all’osservatore di sinistra della Figura 1. Frequenza minore, guardando lo spettro della luce, significa spostamento verso il rosso e ancor più in là, nell’infrarosso, fenomeno chiamato “redshift” (letteralmente “slittamento verso il rosso”). È dunque in questa parte dello spettro che ci si deve aspettare di vedere la luce proveniente dalle stelle più lontane.
‘Houston, abbiamo un problema’ come dice la famosa frase della missione Apollo 13: la nostra atmosfera è un formidabile filtro per la radiazione infrarossa. Ciò significa che la luce a quelle frequenze incontra una vera e propria barriera impenetrabile e non può raggiungere la crosta terrestre. Questo ha per anni precluso la possibilità di investigare il cielo al di là di una certa distanza da noi, pari a quella tale che la luce non subisca il redshift. Stiamo comunque parlando di innumerevoli corpi celesti lontani anche centinaia di migliaia di anni luce da noi, sicché pur senza sfruttare la luce infrarossa, l’essere umano ha avuto a disposizione un numero davvero grande di oggetti da studiare.
Ma l’appetito vien mangiando e ci si è cominciati a chiedere come andare a scrutare quelle stelle così lontane da essere vicine temporalmente al Big Bang. Come superare la barriera all’infrarosso della nostra atmosfera ? L’idea è stata posizionare il telescopio al di fuori di essa. Facile da dire, un po’ più complesso da fare.
Innanzi tutto il telescopio è non convenzionale, dovendo osservare nella banda dell’infrarosso, pertanto è stato progettato ad hoc per questo scopo (2). Inoltre il punto dove posizionarlo deve essere stabile e non troppo distante dalla Terra, alla quale vanno inviate le immagini acquisite (3).
In merito al primo punto, “l’occhio” del telescopio è costituito da 18 esagoni di berillio dorato che insieme formano una struttura circolare di 6.5 metri di diametro, come visibile in Figura 2. Per funzionare, il sensore deve rimanere molto freddo (a circa -223 gradi centigradi !) e quindi è schermato in modo che la luce proveniente dal Sole, dalla Luna e dalla Terra non faccia aumentare, anche se di poco, la sua temperatura. In caso contrario l’emissione infrarossa del telescopio stesso avrebbe “accecato” gli strumenti di misura.
Il lavoro per costruire il telescopio è durato circa 15 anni e nel frattempo altri scienziati decidevano dove andarlo a posizionare. È stato scelto un punto nello spazio chiamato “Lagrange 2”. I punti così chiamati hanno un’interessante e utile proprietà: lì la forza gravitazionale e quella centrifuga si compensano. Quindi controllarne la posizione è molto più semplice che in qualunque altro punto dello spazio, perché appunto non ci sono forze laterali che tendono a modificare la posizione dell’oggetto.
Inoltre, come si può desumere dalla Figura 3, far orbitare il telescopio in un’orbita di questo tipo permette di mantenere fissa la sua orientazione rispetto a Sole, Luna e Terra, senza bisogno di spostare gli schermi durante la sua rotazione.
Figura 2. Assemblaggio completo del sensore a specchio del JSW Telescope, in cui le due persone in basso danno un’immediata percezione delle sue dimensioni.
Figura 3 . Disegno dell’orbita del Webb Telescope rispetto a quella della Terra (Earth) intorno al Sole (Sun) e della Luna (Moon) intorno alla Terra.
Nel 2022 il telescopio ha inviato le prime immagini acquisite e da allora non ha mai smesso, fornendo a centinaia di scienziati materiale da studiare e da investigare, di fatto aprendo una nuova e inedita finestra sul cosmo ed in particolare sulla sua parte più remota.
Ed eccole quelle che ad oggi sono le stelle più lontane da noi (Figura 4), si chiamano Cosmic Gems e le hanno scovate alcuni ricercatori (Adamo et al.) analizzando quantitativamente i dati ricevuti dal telescopio e pubblicando i risultati in un recentissimo articolo su Nature (4):
Figura 4. A sinistra, parte ‘a’, lo schema grazie al quale gli scienziati hanno potuto rilevare le stelle denominate “Cosmic Gems” (gemme cosmiche), in virtù di una deviazione e di un’amplificazione della luce da esse provenienti operata da un insieme di galassie più vicine. A destra, parte ‘b’, l’immagine di tali galassie e delle Cosmic Gems, acquisite con un redshift di 10.2, il che ci dice che tali stelle erano “solo” vecchie di 460 milioni di anni (anni solari terrestri, non anni luce !) quando la luce partì da loro. Ad oggi sono le stelle osservate più prossime al Big Bang.
Probabilmente in pochi anni verranno elaborate tante nuove immagini catturate dal James Webb Space Telescope e di sicuro il record delle Cosmic Gems verrà battuto. Per gli scienziati non è una gara a chi è più bravo, ma a quale stella è più vicina al Big Bang.
Marco Sartore
(1) "Über die Krümmung des Raumes". Zeitschrift für Physik. 10 (1): 377–386, doi:10.1007/BF01332580. Poi tradotto nel seguente articolo del 1999: "On the Curvature of Space". General Relativity and Gravitation. 31 (12): 1991–2000. doi:10.1023/A:1026751225741
(2) "Inside the Universe Machine". IEEE Spectrum. 59 (9): 29. doi:10.1109/MSPEC.2022.9881257
(3) Dichmann, Donald J.; Alberding, Cassandra M.; Yu, Wayne H. (5 May 2014). "STATIONKEEPING MONTE CARLO SIMULATION FOR THE JAMES WEBB SPACE TELESCOPE" (PDF). NASA Goddard Space Flight Center.
(4) Nature, Vol 632, 15 August 2024, p. 513. doi: 10.138/s41586-024-07703-7