Il Mar Mediterraneo ospita un insieme di specie di meduse native e invasive, alcune delle quali innocue ed altre che rappresentano una qualche minaccia per gli umani e per gli ecosistemi marini.
Purtroppo l’interesse per questi animali nasce ciclicamente ogni anno solo durante i mesi caldi e quasi unicamente perché rompono le scatole a chi fa il bagno in mare. Ma forse meritano una diversa attenzione.
Le meduse sono animali gelatinosi (da cui il nome inglese Jellyfish) composti da una parte a forma di cupola detta ‘ombrello’ e da tentacoli e filamenti. Le meduse appartengono al phylum Cnidaria, che si chiama così perché chi ne fa parte possiede cellule dette ‘cnidoblasti’ capaci di espellere flagelli più o meno urticanti (Figura 1). Fanno parte dello stesso Phylum anche gli idroidi, le anemoni di mare e i coralli, tutti animali che possiamo grossolanamente pensare come ‘meduse sottosopra’ e, a differenza delle meduse, fermi su un substrato. Il loro sistema nervoso è diffuso lungo tutto il corpo e quindi risulta de-centralizzato, altro aspetto caratterizzante di questo phylum.
Figura 1. Struttura di uno cnidoblasto in cui a sinistra è nello stato carico e a destra quando rilascia il flagello urticante.
Gli cnidoblasti sono dunque cellule “esplosive” presenti nei tentacoli e per alcune specie anche sul resto del corpo dell’animale. La Figura 1 presenta sia la situazione in cui la medusa è isolata da altre creature (a sinistra), sia quella in cui è venuta in contatto con un altro corpo ed emette il flagello urticante (a destra).
Quando l’animale è rilassato, il flagello è riposto in una capsula all’interno della cellula. Il contatto con un corpo esterno attiva una cnidociglia e il relativo opercolo, un insieme che grossolanamente assomiglia ad un piccolo “coperchio a molla”, che si apre e lascia fuoriuscire tutto il contenuto della capsula come se fosse avvenuta una piccola esplosione (1). È così che lo cnidoblasto si elonga e rilascia il flagello urticante. Questo è il meccanismo di difesa delle meduse ed è esattamente ciò che succede quando subiamo la classica “puntura”.
Il meccanismo non è utilizzato solo per difesa, ma anche e soprattutto per procacciare cibo. Funziona così bene perché lo cnidoblasto contiene una tossina rilasciata dal flagello, che è la vera responsabile della sensazione di dolore per gli umani e che si trasforma in un ben più pericoloso stordimento per esseri viventi più piccoli, che delle meduse diventano in questo modo facile preda.
Le meduse si nutrono soprattutto di plancton, di cui esse stesse fanno parte (precisamente appartengono al ‘macro-plancton’) ma anche di piccoli organismi e di larve di altri animali che si trovano in sospensione.
Ricordiamo che un organismo planctonico per definizione può nuotare e cambiare direzione localmente, ma non è in grado di contrastare la corrente. Ed è questa stessa definizione che ci permette di sfatare un falso mito, secondo cui le meduse amano stare “nell’acqua sporca”. Questa credenza deriva dal fatto che spesso se in mare le meduse sono numerose è facile che nella colonna d’acqua si trovino anche plastiche abbandonate ed altri oggetti inquinanti. Ciò è dovuto al fatto che questa spazzatura viene trasportata fin sulla costa dalle correnti proprio come avviene per le meduse, che, appunto, non le possono contrastare.
Le quattro specie di meduse più comuni in Mediterraneo sono visibili in Figura 2:
Figura 2. Le quattro specie di medusa più comuni in Mediterraneo. In alto a sinistra la Pelagia noctiluca, in alto a destra l’Aurelia aurita, in basso a sinistra il Rhizostoma pulmo e infine in basso a destra la Cotylorhiza tuberculata.
Di esse la più temuta dai bagnanti è senza dubbio la Pelagia noctiluca che è pure la specie più prolifera e presente in tutto il Mediterraneo (2); parafrasando una nota pubblicità televisiva, “la più odiata dagli italiani”. Come molti sanno ha un colore tendente al rosa o al viola chiaro con trasparenze che lasciano percepire la struttura interna dell’animale. Oltre ai 4 tentacoli ben distinguibili in ogni individuo possiede 8 sottili filamenti, lunghi anche più di un metro.
La Pelagia noctiluca è un animale bioluminescente, ovvero quando è sollecitata dal moto ondoso o dalla turbolenza di un’elica produce una tenue luce visibile dall’occhio umano di notte, che peraltro è di corta durata e si smorza presto. Della bioluminescenza di questa medusa scrisse già Plinio il Vecchio nel 77 a.C. nel suo capolavoro “Naturalis historia”, denominando l’animale ‘pulmo marinus’ che poi è stato riconosciuto corrispondere a Pelagia noctiluca.
Il nome ‘pulmo’ usato da Plinio il Vecchio è stato invece assegnato ad un’altra medusa e precisamente al Rhizostoma pulmo, una medusa enorme rispetto a quella appena descritta, in media lunga 40 cm, color bianco latte con terminazione dell’ombrello di un bel viola acceso (3). È anch’essa urticante per l’uomo ma solo leggermente e inoltre la sua non-pericolosità è accentuata dalla relativa bassa presenza sui litorali e nei periodi di balneazione.
Invece Aurelia aurita viene spesso confusa con la temuta Pelagia noctiluca forse perché con quest’ultima condivide la trasparenza del corpo, sebbene sia sostanzialmente diversa. Anch’essa urticante, in Mediterraneo raramente raggiunge dimensioni superiori ai 10 cm mentre negli oceani raggiunge i 40 cm (4). Il suo carattere distintivo è senza dubbio una losanga a 4 petali a forma di ferro di cavallo visibile sull’apice dell’ombrello grazie appunto alla trasparenza dell’animale. Si tratta delle gonadi che assumono questa forma così caratteristica.
La quarta specie è la Cotylorhiza tuberculata che è detta comunemente “hamburger di mare” o “medusa uovo fritto”, due similitudini suggerite osservandola rispettivamente di lato, come in Figura 2, oppure dall’alto, come in Figura 3.
L’ombrello è circondato da un anello simile a una grondaia. I suoi tentacoli marginali sono allungati e si biforcano vicino alla base, ramificandosi più volte. Caratteristica che rende molto gradevole alla vista questo animale è la terminazione a disco dei tentacoli che assumono un colore viola acceso dovuto alla presenza di alghe simbionti. Si tratta delle così dette ‘zooxantelle’, alghe fotosintetiche che sulla medusa trovano un riparo sicuro e che in cambio forniscono energia utilizzata dalla medusa sia per la propria attività che per essere immagazzinata. Ad esempio gli acidi grassi della Cotylorhiza tuberculata provengono in massima parte da interazioni biochimiche con le zooxantelle.
Questa medusa è molto bella da osservare nel suo fluttuare elegante e un occhio attento scopre presto che intorno ad essa nuotano di solito dei piccoli pesci. Lo fanno perché usano la Cotylorhiza tuberculata come rifugio sicuro, infilandosi nella zona fra l’ombrello e i tentacoli, come in Figura 3:
Figura 3. Il fotografo ha immortalato due piccoli pesci comodamente rintanati e al riparo nel corpo della Cotylorhiza tuberculata.
Negli ultimi anni alcune specie invasive si sono unite alle meduse locali. Si tratta di specie che abitano altri mari e che si sono introdotte in Mediterraneo. Il fenomeno è maggiormente evidente nei pressi dello stretto di Gibilterra e vicino al Canale di Suez, cioè nei punti di collegamento con l’Oceano Atlantico e il Mar Rosso, rispettivamente. Tuttavia le specie che si adattano e trovano condizioni favorevoli per vivere nel Mare Nostrum presto si diffondono a latitudini superiori e interessano l’intero bacino del Mediterraneo. Ad esempio la specie Rhopilema nomadica, originaria dell’Oceano Indiano, ha trovato da noi condizioni ideali per vivere e riprodursi (Figura 4).
L’ingresso di queste specie è sia naturale, attraverso i suddetti punti di contatto con gli altri mari, sia causato dall’uomo. Ad esempio i polipi di medusa vengono introdotti perché si ancorano alle chiglie delle navi e perché presenti nelle acque caricate altrove e scaricate qui.
Le specie di meduse invasive, così come quelle degli altri animali, costituiscono un problema ecologico perché creano scompensi nella catena trofica che in migliaia di anni si è consolidata in una determinata regione.
Figura 4. Individuo della specie invasiva Rhopilema nomadica, originaria dell’Oceano Indiano, fotografato in Mediterraneo.
Tornando alle specie locali, l’incremento nei popolamenti di meduse nel Mar Mediterraneo è diventato molto significativo negli ultimi anni, con conseguenze sia ecologiche, sia economiche. Prendendo in prestito il termine dal mondo vegetale, la super-riproduzione di una specie si indica con il termine ‘bloom’ che significa ‘fioritura’ (molto nota è la meravigliosa ‘cherry tree bloom’ in Giappone, quella dei ciliegi in primavera). Così la super presenza di meduse in mare viene detta ‘jellyfish bloom’.
Cerchiamo di analizzare i vari fattori che hanno portato a questo aumento di presenze di meduse, molti dei quali come vedremo sono legati alle attività umane, pertanto prima di lamentarsi il bagnante dovrebbe innanzi tutto fare un “mea culpa”.
Al primo posto, il riscaldamento delle acque del mare dovuto al Global Warming. Questo fenomeno crea un ambiente molto favorevole per le meduse, che sono più prospere in acque meno fredde. Anche i più scettici possono trovare un riscontro quantitativo in merito all’incremento termico del nostro mare dai dati del Progetto MareCaldo (5) al quale sto personalmente lavorando da anni.
Peraltro, un mare più caldo non solo facilita le cose per le specie naturalmente presenti in Mediterraneo, ma facilita anche l’afflusso di specie aliene che, abituate ad acque più temperate, ritrovano qui un ambiente favorevole del tutto simile al loro (6).
Il secondo motivo in ordine di importanza per cui si assiste a banchi inconsueti di meduse è la pesca intensiva e indiscriminata di specie ittiche che in natura si cibano di questi animali, come ad esempio il tonno, il pesce spada, la ricciola, etc. È la pratica detta overfishing che non solo riduce quantitativamente le specie pescate, ma anche i popolamenti di piccoli pesci e di zooplancton (il plancton animale) che competono con le meduse per il cibo. Con meno predatori e più cibo a disposizione, le meduse riescono a proliferare indisturbate (7).
Anche la costruzione di infrastrutture costiere come porti, dighe, barriere frangiflutti e in genere ogni nuovo substrato solido contribuisce al proliferare delle meduse perché si vengono a creare due condizioni favorevoli concomitanti: (i) la presenza di validi ancoraggi per i nuovi polipi che evolveranno in medusa, proprio là (a riva) dove (ii) gli scarichi a mare sono maggiormente ricchi di nutrienti quali i residui organici dell’agricoltura. Ciò genera una situazione eutrofica favorevole per lo sviluppo del plancton e quindi per il bloom delle meduse.
Costituisce un valido ancoraggio per i polipi anche la plastica che inquina il mare, allo stesso modo degli altri substrati solidi ma con l’aggravante di trovarsi diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. La stessa plastica sfavorisce i popolamenti dei predatori di meduse, contribuendo in modo sostanziale allo sbilanciamento in atto.
Altre ragioni sono da ricercarsi in fenomeni tipo la variazione di salinità in alcune aree del nostro mare dovute ad attività umane o allo sversamento di acque dolci dei fiumi. Le meduse prediligono acque a più bassa salinità e quindi le azioni umane che contribuiscono a questo tipo di variazione diventano causa diretta del fenomeno.
Concludo con un’argomentazione che, ammetto, può risultare un po’ polemica ma che, come sempre in ciò che scrivo, è basata su evidenze scientifiche: fatto salvo l’indubbio disagio del bagnante medio (in contrapposizione alla ‘gente di mare’, che impara a convivere con le meduse ad esempio schivandole grazie ad una semplice maschera da sub), certi titoli di giornale ‘estivi’ sono davvero vergognosi. Ad esempio il tipico “Mare infestato dalle meduse” che regolarmente ogni estate fa la sua apparizione e spesso viene persino riportato sulle locandine dei giornalai.
Analizzando bene la questione si scopre infatti che:
le meduse sono tra gli organismi multicellulari più vecchi presenti sul nostro pianeta (8). Vivono in mare da circa 500 milioni di anni e alcune stime recenti parlano addirittura di 700 milioni di anni, il che significa che (i) le meduse sono significativamente più vecchie dei dinosauri, (ii) a differenza di loro sono sopravvissute e (iii) rappresentano una delle forme di vita più longeve e quindi con il maggior successo evolutivo;
gli umani, specificatamente l’Homo sapiens, è sulla terra da soli trecentomila anni, secondo stime basate su identici metodi che fanno uso di fossili e dati genetici.
Con questi dati alla mano, dunque, quale delle due è la specie infestante il mare e quale quella che subisce l’infestazione ?
Se si vuole che la Natura faccia il proprio corso, noi ospiti del pianeta dobbiamo rispettare l’ambiente marino e chi lo abita, facendo evolvere una cultura della convivenza e del rispetto. Ad esempio sarebbe bello impartire ai bambini una profonda conoscenza del Mare, farli diventare veri esperti di questo ambiente rendendoli così capaci di viverlo con consapevolezza, da piccini come da grandi. Capirebbero presto che, così come sarebbe stupido cercar di scavare una galleria con un cucchiaino da caffè, altrettanto lo è pescare mucchi di meduse per farle seccare al sole: oltre ad essere del tutto inutile per scongiurare punture, è un comportamento ecologicamente molto sbagliato.
Marco Sartore
(1) “The Cell Biology of Nematocysts”, Glen M. Watson, Patricia Mire-Thibodeaux, International Review of Cytology, Volume 156, 275-300, 1994
(2) "The Mauve Stinger Pelagia noctiluca (Forsskål, 1775). Distribution, Ecology, Toxicity and Epidemiology of Stings, A Review", Mariottini, Gian Luigi; Elisabetta Giacco; Luigi Pane. Marine Drugs. 6 (3), 496–513, 2008.
(3) "Variability of growth rates and thermohaline niches of Rhizostoma Pulmo's pelagic stages (cnidaria: Scyphozoa)", Leoni, V.; Molinero, J. C.; Meffre, M.; Bonnet, D. Marine Biology. 168 (7), 1–19, 2021.
(4) "Macro-morphological variation among cryptic species of the moon jellyfish, Aurelia (Cnidaria: Scyphozoa)", Dawson, M. N., Marine Biology. 143 (2): 369–79, 2003.
(6) “Jellyfish blooms: advances and challenges”, Fuentes V. et al., Environmental Science, Biology, Marine Ecology Progress Series, 2018.
(7) “Fishing Down Marine Food Webs”, Pauli D. et al., Science,Vol. 279, 860-863, 1998.
(8) “Exceptionally preserved jelly fishes from the Middle Cambrian”, P.Cartwright et al., Plos One, Issue 10, el 121, 2007.