Le politiche ambientali sulla cui crisi non possono esserci ragionevoli dubbi risultano sempre più essere sballottate tra le vicende istituzionali e quelle economiche.
Vediamo in che senso e con quali effetti.
È recentissimo un ampio documento dell’UPI in cui si contesta anche sul piano costituzionale il provvedimento con il quale si dovrebbero abrogare le province di fatto per lasciare il posto a indefinite aree vaste, alle aree metropolitane, a discutibili unioni comunali nonché all’affidamento di nuovi compiti anche amministrativi alle regioni, uno sconsigliabile accentramento. Verrebbe meno annota criticamente il documento il ruolo importante delle province proprio sull’ambiente, sulle politiche di pianificazione anche intercomunale e anche ai parchi e alle aree protette dove esse svolgono già un ruolo non trascurabile insieme ai comuni specialmente in alcune regioni.
Sul ruolo delle regioni e la pianificazione dell’area vasta è in corso anche una interessante riflessione di sul sito Eddimburg che approda dopo i comprensori di lontana memoria all’area metropolitana.
In preparazione dell’imminente congresso dell’ANCI la Legautonomie a Roma con una relazione del presidente Marco Filippeschi ha rilanciato la riforma dello stato, il superamento del bicameralismo perfetto e la revisione del titolo V con il quale non si è riusciti a mettere seriamente in rete stato, regioni enti locali con effetti particolarmente rovinosi specie sull’ambiente di cui non si salva nessun comparto. Sulle stesse regioni gravano peraltro non pochi interrogativi essendo di fatto tagliate fuori dalle decisioni che contano anche qui specialmente in campo ambientale. E anche per loro c’è chi dice che potrebbero pure confluire in poche macroregioni.
Che i guai crescenti dell’ambiente derivino –e non solo da noi- principalmente da politiche economiche e finanziarie speculative –vedi ILVA- è un dato fin troppo evidente.
Lo è altrettanto -ma forse un po’ meno- che alcune delle leggi ambientali più importanti dal suolo al paesaggio alla natura, avevano tra i loro obiettivi e finalità principali proprio quello di contrastare, contenere, impedire questa dissennata invadenza che invece è continuata al punto di far breccia anche in territori e ambiti protetti con l’abusivismo e poi su su con l’inquinamento dei terreni e delle acque marine, fluviali e lacuali con effetti gravissimi sulla sicurezza dei territori e delle comunità.
La legge sul mare prima e poi quella del suolo e ancor più chiaramente quella sui parchi e le aree protette puntavano infatti ad affermare il principio costituzionale che tutte le attività incluse quelle economiche devono sottostare e non prevaricare gli articoli 9 e 32 a cui non certo a caso fa riferimento la legge 394. Il piano –anzi i piani dei parchi ma anche quello di bacino non si ispiravano più alla apposizione di vincoli secondo una storica tradizione che ne aveva accumulati a dismisura senza portare a casa molti risultati, ma introduceva per la prima volta, travalicando i confini amministrativi comunali, provinciali e non di rado regionali strumenti oltre che di vigilanza di gestione dei beni comuni nella sua più ampia accezione.
Questa innovativa esperienza ha dato innegabili risultati ma è incappata anche in freni e spesso aperti sabotaggi a partire dai governi e anche dal parlamento. Un dato per tutti che continua ad essere ignorato ed eluso sorprendentemente anche nella discussione al Senato sulla legge 394; il ministero dell’ambiente è da anni, molti anni privo di qualsiasi sede e strumento di programmazione e concertazione con le regioni, gli enti locali e gli stessi parchi. C’erano nella legge del 91 e dovevano essere ripristinati con la Bassanini ma non è mai avvenuto e nessuno neppure al senato sembra essersene ricordato e men che mai ha finora pensato a istituirli.
Intanto abbiamo parchi soprattutto nazionali che non riescono a dotarsi di un piano. Ce ne sono che hanno il presidente ma non il consiglio. Altri che hanno il consiglio ma non il presidente.
Eppure nonostante questa poco invidiabile situazione dei parchi come dei bacini idrografici e tutto ciò che ha a che fare con politiche di programmazione e di governo del territorio si sta parlando d’altro e non solo al Senato. Che i parchi siano stati estromessi da qualsiasi competenza sul paesaggio non sembra interessare a nessuno. Che sulla gestione delle coste e del mare si stia trafficando scandalosamente per far fuori regioni ed enti locali magari per far posto a qualche ‘categoria’ non sembra interessare chi continua disinvoltamente a far finta di niente. A cominciare dai parchi che stanno portando il moccolo con rappresentanze che da tempo non sono state capaci di presentare proposte serie a partire proprio dal senato. Se non si vuole considerare un contributo la brillantissima idea di fare dei parchi dei ‘volani’ dell’economia sia pure un po’ più verde. E chi se ne frega se alla pianificazione del territorio a partire da quello protetto non si dedica nessuno a partire da Roma e dal ministero.
Possibile che ci sia dimenticati che i parchi in Italia a partire da quelli regionali sono nati nelle situazioni più critiche e interessanti proprio perché le istituzioni locali e regionali e poi anche nazionali hanno salvato il Ticino o San Rossore con impegni, progetti e piani che hanno fatto da volano qui sì e per primi- a quelle politiche di tutela del bene pubblico di cui oggi c’è non meno ma più bisogno di ieri.
Vorrei che anche nei prossimi appuntamenti a Palermo il 30 ottobre, a Roma l’11 e 12 dicembre dove si discuterà del ruolo dei parchi ci si ricordasse non solo di questa storia ma soprattutto di quel che ci si aspetta oggi. Che è quello che come Gruppo di San Rossore abbiamo cercato di mettere a fuoco in un nostro Quaderno che presenteremo al Ministro e discuteremo in diversi appuntamenti.
Renzo Moschini