Noi italiani amiamo discutere in linea di principio, su tutto. Ius soli, ruolo delle donne, prospettive dei giovani sono fra i tanti temi che animano il dibattito politico e le discussioni, infinite, sulla rete. Ci dimentichiamo, spesso che, a volte la realtà va avanti senza tener conto del dibattito confuso che la circonda. Lo sport è un buon esempio di questo assunto. In Italia ci sono migliaia di giovani di figli d’immigrati, che condividono, senza barriere e pregiudizi l’esperienza agonistica con i loro coetanei italiani per nascita e famiglia. Lo sport femminile si sta affermando tumultuosamente, senza tener conto delle disquisizioni, spesso del tutto ideologiche, che lo commentano. Esistono realtà che puntano sui giovani, magari minoritarie e sperimentali ma importanti.
Ion Neculai ha diciannove anni. È nato in Moldavia nel 2001, ma i suoi genitori si sono trasferiti in Italia, all’Isola d’Elba, quando lui aveva un anno. Oggi è nazionale dell’Under 20 di Rugby e sta preparando, nel ritiro di Parma, l’importante partita del 6 Nazioni contro la Scozia, che si disputerà domani sera a Reggio Emilia; succoso antipasto del mondiale under 20 che si giocherà, fra Emilia e Lombardia, in estate. Volevo chiedergli quanto si sente italiano, ma mi sono bastate le sue prime parole per rinunciare a una domanda che, sicuramente, gli sarebbe sembrata sciocca. Ion (diminutivo di Ivan) si esprime con accento livornese, contaminato da inflessioni vernacolari tipiche degli Elbani (ad esempio pronuncia il nome del suo paese, Portoferraio, con una sola r). Sente molto, e molto positivamente, il suo essere isolano; adora la sua terra.
È evidente che I suoi compagni e il suo staff non perdono certo tempo a misurare la sua italianità. Tanto meno i suoi conterranei, per i quali è un ragazzo scatenato sul campo (lo chiamano Ivan il Terribile) ma calmo e amico di tutti quando si toglie la divisa di gioco.
Ion, perché proprio il rugby?
“Ho provato, da bambino tutti gli sport. Me la cavavo con il judo, ma il rugby mi dava una dimensione ideale del gioco di squadra. Essere in prima linea, con i compagni, ella mischia (gioca nel ruolo di Pilone, il più “sporco” del rugby) contendere il terreno agli avversari, centimetro per centimetro, mi riempie di allegria. Mi piace quel senso agonistico che fa anche, ogni tanto, litigare con gli avversari. Ti scontri con loro, ma sai che alla fine della partita finisce tutto a tavola, nel cosiddetto terzo tempo. Il calcio? Non ho certo il fisico adatto (Ride, è, in effetti, una montagna di muscoli un po’inquietante, ha il collo taurino e arti simili a trochi d’albero, è alto un metro e ottantasei e pesa intorno ai centoventi chili). Non ci capivo molto, e mi mettevano sempre in porta. A dire la verità non mi piace tanto nemmeno seguirlo. Questione di gusti, niente di più. I miei compagni di squadra lo adorano ed io rispetto chi lo pratica e chi lo segue, ma non mi diverte. Un’altra cosa che amo del mio sport è la mancanza del divismo. Certo, ci sono i fuoriclasse anche fra noi, ma anche loro sanno di avere bisogno della squadra. I nostri grandi campioni non sono mai star viziate e sovraesposte”.
Com’è cominciata la tua carriera?
“Ho giocato nella squadra dell’Isola d’Elba fino ai 18 anni, poi ho frequentato l’Accademia rugbistica regionale a Prato. Ora sono in quella nazionale, in un paesino del bresciano, Remedello. Sono veri e propri college in cui si perfezionano la tecnica e la teoria del gioco ma, allo stesso tempo, viene anche seguito il percorso scolastico (o universitario) degli allievi. La nostra federazione cura molto il settore giovanile tanto che e il nuovo commissario tecnico della nazionale maggiore, il sudafricano Franco Smith, ha deciso di immettere nel team anche alcuni elementi delle accademie, di puntare fin da subito, sui giovani e ha convocato ragazzi del ’98. Prima si puntava tutto sugli elementi esperti. Chi è in Accademia sa che se si allena e si comporta bene ha possibilità di giocarsi carte importanti”.
Che sogni hai per il tuo futuro?
“Intanto penso a venerdì, alla partita con la Scozia, che è molto importante. Abbiamo vinto in Galles e perso con la Francia, negli ultimi minuti (gli ridono gli occhi mentre ricorda queste imprese, nda). I ragazzi scozzesi sono molto forti, ma se giochiamo una buona partita, cosa di cui siamo capaci, potremmo anche toglierci una soddisfazione. Non partiamo battuti. Nel mio futuro c’è il prossimo mondiale under 20, ma non voglio pensarci troppo. Basta un infortunio per mandare tutto all’aria e niente toglie che nei prossimi mesi il tecnico scelga ragazzi che siano migliorati più di quanto abbia fatto io. No, non sogno di giocare in un grande club estero, almeno per ora. Al mio livello attuale, in Francia o nelle Isole Britanniche mi mangerebbero vivo (Ride). Certo, alla nazionale maggiore ci penso”.
Un’ultima domanda, Ion. Le ragazze italiane stanno facendo grandi cose in campo rugbistico. Ci s’immagina che il vostro sia uno sport molto maschile, poco adatto alle donne .
“Ma no, possono giocare tutti, Giovani, amatori più anziani, ragazze. Perché queste ultime non dovrebbero giocare?”.
Accanto a Ion c’è Paolo Granata, accompagnatore e addetto stampa; anche lui scuote la testa. Il maschilismo, almeno in questo ambiente, non è un problema, su cui discutere o dare spiegazioni. La risposta di Ion è anche quella del dirigente. Non c’è nessun motivo per cui le ragazze non possano giocare a rugby; semplice, chiaro. Discettarne sarebbe ozioso, superfluo.
Alla fine della chiacchierata con Ion, faccio i complimenti a Paolo Granata, per l’aspetto che da di sé il gruppo. Ragazzi , rilassati, tranquillo, determinatissimi ma sorridenti, come è giusto che siano alla loro età.
“Qualche anno fa non era così facile avere ragazzi così consapevoli dal punto di vista umano e professionale. In questo senso le accademie hanno lavorato bene. Certo la nazionale maggiore è in affanno, ma l’Under 20 ha iniziato benissimo il 6 Nazioni e le ragazze sono davvero brave. Qualche segnale positivo si vede, ma la strada è ancora lunga, soprattutto perché viviamo in un paese, in cui il calcio è debordante e drena tutte le risorse. Questo clima di pensiero unico sportivo penalizza tutte le altre discipline. Comunque la nostra mentalità di rugbisti è quella di non arrenderci mai”.
Marco Buttafuoco