Filava tutto liscio come l’olio, l’armonia regnava sovrana, un bel giorno del 1979 però Oreste, per motivi suoi, decise di far razza per conto proprio.
Si fece prestare (comunque sia erano amici) la Padulella 2, ne ricalcò lo stampo e costruì, a fasciame incrociato, la propria barca da solo, sotto casa, e dunque sotto il naso di Nilo che ogni pomeriggio andava a controllare minuziosamente, friggendo come un peperone.
Era logico che friggesse, ricalcare lo stampo ad una barca è un’operazione di pura sofferenza, per quella che sta sotto a far da cavia: fori, martellate, chiodi, tiranti e spille a più non posso.
Oreste si dette una mossa, era come stressato, sentiva troppo il fiato sul collo: la barca fu pronta in poco tempo.
Tutto ok. E allora? Che nome gli si dà?
Capo Bianco.
Della serie: me ne vado, ma mica di tanto. Sono giusto dietro l’angolo, il fiato sul collo ora lo sentirai un pochino anche te.
La rivalità cominciò così, partirono in quarta.
In realtà quel nome era solo di facciata, una (riuscitissima) provocazione, la barca sulla spiaggia di Capo Bianco non vi fu adagiata mai, il quartier generale rimaneva comunque la Padulella.
Oreste, che aveva realizzato sotto il naso di Nilo la prima barca, aveva una grossa gatta da pelare per la seconda, nuova di trinca.
L’arrivo della seconda barca, tempo dopo, merita un discorso a parte, poiché fu un’operazione da agente 007.
Se uno dei due starnutiva, l’altro se ne accorgeva: dove se la infilava Oreste una barca di quasi sei metri senza che Nilo ne sapesse nulla?
Dove era inimmaginabile: dentro casa.
Chapeau.
Il riferimento è anche al fatto che Oreste riuscì a persuadere la sua sposa: provate un po’ voi a spiegare a vostra moglie che dovete ficcare una barca in casa, da gara per l’aggiunta… tanti auguri!
A quel punto, risolto il dilemma del dove, restava quello del come.
La barca, che proveniva da La Spezia (Oreste aveva commissionato il lavoro al Mori, lo stesso mastro d’ascia che aveva costruito la Padulella 1) fu portata dentro casa di notte, di soppiatto.
Ma una barca non ingombra come una valigia, Oreste dovette creargli spazio.
Spostarono i mobili e picchia e mena riuscirono a stivarla di traverso nella stanza più grande, la sala.
Ci schioccarono anche un bel telo sopra, coprendola, perché non si sa mai.
Roba da matti.
C’è un detto nello sport che vale per tutti: il peso di una vittoria è direttamente proporzionale al valore dell’avversario che hai battuto.
E loro due, conoscendo il valore l’uno dell’altro - guai ad esternarlo però - sapevano che, in caso di vittoria, la gioia sarebbe stata doppia, tripla, quadrupla.
Ma che dico gioia: quando uno dei due sconfiggeva l’altro, godeva immensamente.
Per prevalere valeva tutto e le modifiche apportate alle barche erano diaboliche, ma per motivi di spazio non si possono raccontare nel dettaglio tutte.
Una però sì, la prima in assoluto, la madre di tutte le diavolerie, che ancora se lo ricordano tutti: il timone allungato del Capo Bianco.
Quell’invenzione fu un autentico colpo di genio: Oreste allargò di quanto bastava - una decina di centimetri - il dritto di poppa e realizzò un timone, di un metro e passa, che sembrava un siluro (la foto è tutto un programma).
Ma non era un timone di legno, altrimenti sarebbe dovuto pesare una quindicina di chili, bensì di poliuretano espanso. Di legno c’era solo il bastone di guida.
In termini di peso, il vantaggio era notevole.
In termini di galleggiamento, il vantaggio era inestimabile: quella barca non appoppava mai, filava che era una meraviglia, era come se avesse il motore.
Sissignori, un motore.
Perché è riduttivo definirla una questione di galleggiamento, il nocciolo era ben altro: avete presente cosa fa una barca (a motore) quando si dà gas a manetta? Scarica l’energia nella parte posteriore, in verticale, dall’alto verso il basso, e dunque si accuccia di poppa. E’ fisiologico.
A remi, a grandi linee, accade la stessa cosa.
E quella barca, con quel timone di poliuretano espanso - di grandi dimensioni: serviva volume - non potendo, altrettanto fisiologicamente, accucciare di poppa, cosa faceva? Come sprigionava l’energia immagazzinata nel poliuretano quando i vogatori pigiavano forte sull’acceleratore?
La scaricava in orizzontale, in avanti, da poppa verso prua. Brutalmente, ad effetto fionda.
Eccola qui l’essenza della genialità di Oreste: quella barca, appunto, aveva il motore. Turbo.
A Porto Azzurro quelli dell’Imperia scossero il capo: «A questi non li pigliamo più».
Infatti. I ragazzi di Oreste erano pressoché imbattibili.
Quella barca “elaborata” del Capo Bianco, a differenza dell’altra, veniva riposta nel capannone della Lega Navale al Grigolo e leggenda narra che fosse piantonata h24.
Continua…
Didascalia foto:
Il Capo Bianco in darsena a Portoferraio.
Il primo equipaggio del Capo Bianco che regalò la vittoria ad Oreste (da notare la gente abbarbicata sugli scogli a San Giovanni per vedere meglio la gara, quando il Palio era il Palio).
Immagini di gara barche di legno.