Quel timone del Capo Bianco creò una linea di demarcazione, netta, tra il prima e il dopo, e fece da capostipite.
Perché tecnicamente non era fuorilegge: il regolamento dell’epoca era ambiguo e, all’atto pratico, di proibito c’era poco e nulla.
Gli altri fecero buon viso a cattivo gioco e non ci andarono certo di scartina.
Fu una corsa spasmodica, un po’ come lo fu quella allo spazio, negli anni ’60, tra le superpotenze mondiali.
Per cui, in ordine sparso, nelle barche da gara si videro apportate migliorie del tipo: poppe allargate, prue affusolate, bulbi, tavole da surf come chiglia, carrellini scorrevoli e chi più ne ha più ne metta.
E la fava s’ingrossava. Uh, se s’ingrossava!
Questa foto, scattata a Marciana Marina successivamente l’arrivo della gara, è forse il culmine di quel periodo.
Ritrae il Capo Bianco col timone allungato ed un bulbo, bianco, sotto la prua.
Soltanto che, proprio il bulbo, era una novità assoluta, che nessuno quel giorno si aspettava e, per una miglior riuscita dell’operazione, il segreto doveva rimanere tale fino all’ultimo secondo possibile.
Il polverone, casomai, dopo la gara. Prima, no davvero.
Sicché i ragazzi guidati da Oreste applicarono alla lettera il protocollo, era tutto studiato a monte: scesero in mare “regolarmente”, senza bulbo, nelle fasi di riscaldamento andarono alla spiaggia della Fenicia (dietro la torre), al riparo da occhi indiscreti, presero il bulbo da chi glielo aveva portato fin lì, lo montarono alla svelta (attraverso un meccanismo ad incastro, manco a dirlo, geniale) e si presentarono alle boe di partenza. Non vinsero, stravinsero.
Il bulbo fu usato in gara tre volte in tutto.
Sulla Padulella 1 lo replicarono anche quel famigerato timone, ma non ci gareggiarono mai, perché nel frattempo il programma Apollo era terminato, senza che nessuno (metaforicamente) avesse mai messo piede sulla luna.
Le polemiche e le discussioni non si contavano più, volò anche qualche seggiola.
Addirittura, nel corso di una infuocata riunione di Comitato al Grigolo, il Presidente del Comitato stesso, Gaetano Donati - un personaggio preso in prestito dalla mitologia il quale, tra le mille cose che ha fatto in vita sua, in quel periodo faceva karate - lasciò andare in perfetto stile un calcio a mezza vita al suo figliolo, reo di alto tradimento: su una controversia, aveva osato contraddirlo.
Povero Michel, fu appiccicato al muro. Pagò lui per tutti.
Sulle epiche cazzottate invece ci sarà (perché è chiaro che lì, prima o poi, bisogna andare a parare) nel capitolo successivo, la prossima settimana, un gustoso aneddoto raccontato da chi era testimone.
Le diatribe stavano irrimediabilmente prendendo il sopravvento sullo spirito sportivo: era diventata insostenibile, tanto valeva ammucchiare.
Il Palio remiero ripartì qualche anno dopo, nel 1988, con le barche in vetroresina - progettate dal quel cervellone marinese di Sergio Spina, è bene ricordarlo - uguali per tutti e non modificabili.
Alla Padulella non stavano mai con le mani in mano.
Tanto per citarne una, furono i primi, quaranta e più anni fa, a curare la preparazione atletica come si deve.
Affidarono i propri atleti al prof. Leoni che preparava, e faceva loro rispettare scrupolosamente, tabelle di allenamento ad hoc.
Oggi sarà anche la regola, un po’ in tutti gli sport, ma all’epoca, almeno per il canottaggio, fu una vera rivoluzione.
Con un equipaggio fortissimo (nella foto), negli anni ’70, dominarono anche la scena, con la loro inconfondibile palata fluida.
A livello tecnico, inteso come tecnica di voga, la Padulella non è mai stata seconda a nessuno.
La massima di Nilo, testuale, era questa: «Ogni barca c’ha la su’ vogata».
Come dargli torto?
Non si voga su una iole come su un canotto, e all’inverso: se di una barca riesci a trovare la palata giusta, cammini di più e fatichi di meno.
Le barche della Padulella poi, erano signore barche.
La riprova l’ho avuta pochi anni fa, sulla spiaggia dell’Innamorata a Capoliveri quando, in occasione della festa del 14 Luglio, in cui per la disfida della ciarpa viene inglobata in notturna una piccola gara di 4 barche, rigorosamente di legno, mi sono imbattuto nella gloriosa Padulella 1.
Mi batteva forte il cuore dall’emozione: quella barca era stupenda, ed emanava un fascino immutato, autentico, irresistibile, come quello di un capolavoro d’arte che non invecchia e non svaluta mai.
Era una barca suggestiva anche la Padulella 2 (nella foto, in gara) acquistata, di seconda mano, dal Canaletto La Spezia.
Quando si acquista una barca usata si acquista il pacchetto completo, perché la barca porta in dote con sé la storia che ha già.
E quella barca, ahimè, era marchiata a fuoco con un sinistro soprannome: “cassa da morto”.
Gli spezzini l’avevano ribattezzata così perché, chiunque ci montasse sopra, non vinceva praticamente mai.
Tant’è che tempo dopo, quando il Canaletto fu inviato all’Elba ad una gara e perse, di poco (circa un metro), ma perse, proprio dalla Padulella, le facce dei vogatori liguri si fecero spettrali, e qualcuno di loro si lasciò scappare un eloquente: «E ora, come glielo raccontiamo, laggiù, che abbiamo perso dalla cassa da morto?»
Confesso che da bambino rimanevo incantato ad ammirarle, la 1 e la 2, in allenamento più che altro, dal muretto delle Ghiaie, anche perché un mio amichetto dell’epoca, che abitava al Ponticello, era a bordo come timoniere.
Inutile nascondere che morivo d’invidia ed un mio sogno era quello di montare, un giorno, sulla Padulella.
Continua…
Michele Melis
Didascalia foto:
- L’equipaggio della Padulella 1 che dominò la scena negli anni ’70 sul viale delle Ghiaie (foto copertina).
- Il Capo Bianco col bulbo a Marciana Marina.
- La Padulella 2 in gara a Marciana Marina.
- La Padulella 2 trasportata sulla spiaggia a Marina di Campo.
- Giro di boa alle Ghiaie: da sinistra, la Padulella 1 in uscita dalla boa, L’Imperia di Porto Azzurro in entrata e la Padulella 2 in virata (il capovoga “puntava” alzato in piedi per una maggior efficacia).
- Il primo trofeo vinto dalla Padulella.