Con l’avvento delle barche di vetroresina, la rivalità tra Nilo e Oreste non si affievolì affatto e l’apice fu, senza dubbio, il Campionato Italiano del 1989, disputatosi a Genova.
Perché fino ad allora il duello Padulella-Capo Bianco era stato circoscritto al territorio elbano, quella volta invece si varcava il canale e ci si giocava, ad armi pari, il tricolore insieme al resto dello stivale.
Erano entrambi equipaggi fortissimi - la Padulella aveva anche, appositamente, imbarcato il Lambruschi di Porto Azzurro, storico mastino dell’Imperia, leggenda del remo elbano - caricati a mille per l’occasione e per entrambi il bersaglio di caccia, senza mezze misure, era quello grosso.
Me lo ricordo, e piuttosto bene, per un semplice motivo: il timoniere della Padulella ero io.
Il sogno era diventato realtà.
Avevo quindici anni e venni reclutato in modo rocambolesco l’anno prima, e ricordo ancora la reazione di mia mamma quando le risposi ad una domanda.
Vedendo che, per via degli allenamenti, rincasavo sistematicamente tardi per cena (i sacrifici li fanno anche i timonieri) lei mi domandò, una sera, come mi trovassi alla Padulella ed io, che provenivo dalla Lega Navale gestione Bubi, le risposi: «E’ il massimo, è come la Juve».
Lei sorrise di gusto ed io aggiunsi: «Vedi mamma, ti lisciano, ti coccolano, non manca mai niente. Però, proprio come la Juve, quello che conta è vincere».
Faccio un attimo un salto indietro, nel capitolo precedente, perché bisogna che faccia chiarezza su un episodio, visto che me l’hanno chiesto esplicitamente.
Che spostarono la boa di Oreste non è una favola che mi hanno raccontato, a bordo di quella barca sabotatrice erano in tre: uno che armeggiava delicatamente col motore, un altro che si faceva un culo come un aveggio per sollevare il corpo morto dal fondale (tanto sai, Oreste aveva calato giù quello di un ombrellone…) ed infine il sottoscritto che faceva “il palo”.
Ognuno tenne per sé l’accaduto, e di quel tiro mancino quelli del Capo Bianco sono venuti a saperlo la scorsa settimana.
Torniamo ai fatti di Genova: essendo parte in causa, li racconto in prima persona plurale che mi torna meglio.
Gli episodi che seguono, forse, dicono tutto su quanto fosse sentita questa rivalità.
Inizialmente il Capo Bianco doveva essere nello stesso albergo con noi, ma Oreste minacciò il Moretti, patron della Guardiola - erano iscritti alle gare col nome di Guardiola, Capo Bianco non si poteva poiché era necessaria l’affiliazione a regola d’arte alla Federazione con una Società sportiva - affinché trovasse un altro albergo, pena il ritiro dell’equipaggio. Non credo che scherzasse.
Venerdì sera, prima di gareggiare, con l’equipaggio della Padulella, la società ed alcuni familiari al seguito, passeggiavamo per la fiera a Genova (enorme: per capirsi, la sera dopo ci avrebbe suonato Vasco Rossi) e tra gli stand, tra centinaia di persone, incrociammo loro, l’equipaggio del Capo Bianco.
Noi eravamo con indosso le tute, in divisa sociale, e dunque bianco rosse, loro altrettanto con quelle bianco verdi.
Alla reciproca vista, neanche tanto da lontano, ci sparpagliammo all’istante, come fanno i banchi di sardine quando arriva il predatore.
Fu un attimo: noi a passo svelto diretti verso il polo nord, loro verso il polo sud, nessuno degnò di attenzione nessuno. Nemmeno uno sguardo, figuriamoci un saluto.
Tanto per rendere l’idea dell’aria che tirava: il nostro capovoga, Daniele Boggio (il figliolo di Nanni) aveva la sorella Barbara fisicamente aggregata nel gruppo di là, in quanto consorte di Riccardo Mazzei, vogatore del Capo Bianco, eppure…
Eppure funzionava così: o stavi da una parte, o stavi dall’altra, punto. Chi c’era, c’era.
Nella foto, i cognati ritratti insieme a gare ultimate (prima, com’è comprensibile, scattare questa foto sarebbe stato impossibile).
Poi ci furono le gare. Al sabato si disputavano le batterie, la domenica la finale.
Entrambi passammo le batterie relativamente in scioltezza ed in finale a noi riuscì la classica partenza a schioppettata.
Perché caricare a bordo il trentacinquenne Elio Lambruschi significava sì caricare un guerriero mai domo, un trascinatore - a fine allenamento sempre un paio di “partenzine” (come le chiamava lui) in più, mai una in meno, non c’era orario che tenesse - ma, con l’esperienza che aveva, anche un marpione.
Al sabato noi gareggiavamo nell’ultima batteria, ed Elio insistette per assistere, in mare, in disparte, alla partenza delle altre gare (si gareggiava su 1.500 metri a dritto, la partenza era lontano): sembrava tempo perso, minuti rubati al riscaldamento, ma lui voleva, a tutti i costi, vedere con i propri occhi la procedura di partenza.
Bingo.
Il via veniva dato in un modo a noi sconosciuto, con la bandiera (nel Palio remiero all’Elba si usava con la pistola) e, ignari del fatto, saremmo stati colti di sorpresa, o quanto meno, non avremmo potuto poi azzardare una partenza al limite dell’anticipo. Cosa che, analizzando le movenze del giudice, puntualmente avvenne.
Gli altri non stettero certo a guardare, ma noi in quella finale facemmo una partenza che nemmeno nei sogni: dopo soli venti metri avevamo una barca di vantaggio su tutti.
Mai vista così tanta forza in mare. Né prima, né dopo. Da noi e dagli altri.
Eh sì, quella partenza l’avevamo davvero presa dove gli prudeva, che se ora chiudo gli occhi e ci ripenso, a distanza di tutti questi anni, provo ancora quella strana sensazione di decollo.
Perché lì, fidatevi, la barca decollò.
Mantenemmo invariato quel vantaggio (una barca) sugli altri per tutta la gara, ma nei 50 metri finali lampeggiava la spia, benzina non ce n’era più.
Il gruppo incalzava.
Questa foto (che sembra una partenza ma è un arrivo) è stata scattata a pochissimi metri dal traguardo e si commenta da sola. La Padulella è quella in alto, subito sotto c’è la Guardiola.
Arrivammo quarti, sul filo di lana ci passarono tutte e tre: le due genovesi Esperia e Speranza Pra’ (in corsie di terra) e loro, la Guardiola, onorevole terzo gradino del podio.
Proprio loro, il Capo Bianco. Tatticamente perfetti, o quasi.
Perché anche loro, ci mancherebbe altro, avevano di che rammaricarsi: al contrario nostro, di benzina ne tenevano, soltanto che il serrate finale fu chiamato a bordo con troppo ritardo.
Lo stato dell’arte era dunque questo: medaglia di bronzo Capo Bianco, di legno Padulella.
Dalla nostra prospettiva, la disfatta era completa. Per Nilo e soci, un dopogara da incubo.
A cerimonia di premiazione conclusa, Oreste ci dette il colpo di grazia, scolpendo nella pietra questo:
«Almeno noi l’inno di Babele l’avemo sentito. E voi puppavete ‘l dito».
In rima baciata: poeta, anche.
Attenzione però, non tragga in inganno questa sommaria confusione sull’autore dell’inno nazionale (la coniugazione dei verbi è invece, diciamo così, corretta: il linguaggio popolano quello era), sotto molti aspetti una logica conseguenza dell’acculturamento derivante, come quasi da prassi per la generazione dell’epoca, da un’istruzione scolastica ridotta all’osso o giù di lì.
La “cultura”, quella che per gente così contava davvero, era quella del fare.
Questi personaggi non stavano fermi un attimo, mai, e magari si districavano anche maluccio tra vocabolari ed enciclopedie, però, pur non avendo studiato, erano lo stesso menti geniali perfettamente in grado, senza uno stralcio di progetto, di ideare e realizzare con le proprie mani, con una materia prima rimediata ogni volta nel modo più disparato (e mai disperato), qualsiasi cosa.
Che fosse stata una barca, uno strano marchingegno o un bene di prima necessità era indifferente.
Nilo ad esempio, non essendo neanche un muratore, si è costruito la casa da solo.
Quella casa oggi è abitata dal nipote, fresco neo padre.
Nella foto sottostante (bellissima, un doveroso grazie a chi me l’ha girata) le mani, con la pelle ormai grinza di un Oreste settantasettenne, impegnate a rammendare il telo della barca, nel 2009.
Continua…
Michele Melis
Didascalia foto
- L’arrivo della gara.
- L’equipaggio della Padulella a Genova
- L’equipaggio della Guardiola, medaglia di bronzo.
- Riccardo Mazzei e Daniele Boggio.
- Le mani operose di Oreste.