“Vergogna, umiliazione, vessazione”. Con questi termini i giornali brasiliani hanno presentato la serata terribile dell’8 luglio. Nessun Paese al mondo più del Brasile potrebbe essere più colpito al mondo da una sconfitta su un campo di calcio. Neppure se le dimensioni di una sconfitta fossero quelle di una disfatta, come l’1-7 subito dalla Germania nello stadio di Belo Horizonte. Ho visto questa partita, incredulo come tutti, qualche giorno dopo aver letto e preparato la recensione di No País do Futebol. Brasile 2014. Il calcio torna a casa, un bel libro dell’antropologo Bruno Barba edito da effequ, piccola casa editrice con sede a Orbetello.
La conquista della Sesta, la sesta Coppa del mondo, solo poche ore fa sembrava ancora possibile, e il Maracanaço, la sconfitta di misura da parte dell’Uruguay il 16 luglio del 1950, era l’ombra lunga e l’onta storica che il Mondiale 2014 avrebbe dovuto cancellare per sempre. La storia di un 1-2 inatteso nella finale dei primi mondiali ospitati dal Brasile è stata improvvisamente cancellata, sostituita in modo incredibile e inatteso da un nuovo incubo che le nuove generazioni trasmetteranno a quelle successive; e questa volta non si è trattato di un lutto nazionale vissuto in proprio, fenomeno vissuto solo all’interno di un Paese alla ricerca di se stesso, ma è stata una tragedia messa in scena davanti al mondo intero che non basteranno fiumi di lacrime né di inchiostro a raccontare a sufficienza.
Oggi quel libro che Bruno Barba aveva scritto, e io avevo letto, con l’incognita del “come va a finire” oggi mi sembra offrire persino la possibilità di comprendere altro: cosa sta accadendo e cosa potrà accadere in Brasile nei giorni e nelle settimane prossime? Quale influenza un simile evento sportivo, e sociale, potrà avere sulla società e sulla politica brasiliana (che a sua volta presumibilmente, date le interconnessioni, si potrà riflettere sull’economia mondiale?)
Fino a poche ore prima dell’inaugurazione del Mondiali sembrava che le proteste potessero mettere in dubbio o almeno impensierire lo svolgimento dei campionati, poi era bastato il calcio d’avvio e tutto sembrava trasformato. Le cronache degli inviati ci parlavano di un Paese dove la criminalità era andata in vacanza, dopo le proteste in piazza si erano trovati gli accordi, la sicurezza era garantita senza violenza, l’allegria e la pace sembravano farla da padroni per le strade. E persino l’organizzazione si stava dimostrando superiore a quella delle Olimpiadi di Londra del 2012. Ecco, tutto questo il libro di Barba già sembrava spiegarlo.
Il libro prende spunto dall’attualità per raccontarci in modo chiaro, ricco e convincente perché la vera casa del calcio sia diventato, in poco più di mezzo secolo, il Brasile e perché un campionato del mondo possa essere (e forse lo è ancora di più oggi, dopo l’infausto 8 luglio 2014) una lente di ingrandimento per leggere un Paese-continente di una dimensione corrispondente a 28 volte l’Italia. La chiave dell’analisi di Barba è il “germe prezioso, incommensurabile, fecondo e segreto” che si chiama meticciato, “un àncora che pare esile ma invece è solidissima, perché fatta di sangue, di pelle, di anima.”
Anche se le classi abbienti e le classi dirigenti sono per oltre il 90% formate da bianchi (basta guardare la differenza tra il pubblico in tribuna e quello nelle curve) il 47,8% dei brasiliani si dichiara meticcio, il 7,6% nero. La diversità dei brasiliani dagli abitanti degli altri Paesi consiste proprio in questo: nell’aver esaltato nella propria storia e cultura, fin dalle origini, la capacità di superare le barriere tra linguaggi e stili. E’ qualcosa di diverso dalla “fusione”, perché si serve degli elementi creativi presenti in tutte le culture che si sono incontrate e si incrociano nel Paese e si alimentano di nuove energie.
Il calcio in Brasile e la sua Seleção (la Nazionale di calcio), secondo Barba, sono la perfetta immagine, proprio come il samba e il Carnevale, di un Paese la cui ricchezza è il popolo, “ricetta di felicità” e “disastro senza rimedio”. Nel calcio si esprime nel modo più evidente il “paradosso del bambino”: “Se vinciamo, – dicono i brasiliani – vinciamo perché siamo bambini e cioè audaci, creativi, intrepidi e originali, se perdiamo … è perché siamo bambini, in quanto irresponsabili, indisciplinati, indolenti, senza carattere.” Non sarà un caso che le immagini che in questi giorni hanno fatto il giro del mondo, prima di quelle dei bambini e degli adulti di ogni età piangenti di tristezza e delusione allo stadio di Belo Horizonte, siano state precedute, appena pochi giorni prima, da quelle di calciatori in lacrime di gioia: il portiere Julio Cesar prima e dopo i calci di rigore con il Cile, quelle di commozione del capitano Thiago Silva, che si era illuso poi di aver risposto con un gol alle critiche. Il “paradosso del bambino” è una chiave dell’analisi di questo libro.
L’autore ci guida attraverso la storia del Brasile e del suo calcio, dall’importazione del modello inglese, aristocratico ed esclusivo, al primo campionato vinto dal Vasco de Gama nel 1923 con una squadra di tre neri, un mulatto e sette bianchi di classe operaia. Ci racconta, ovviamente, la tragedia nazionale del Maracanaço, il 16 luglio 1950, quella partita di calcio che ebbe come conseguenza decine di infarti e suicidi. In quel caso furono i neri e i mulatti accusati della disfatta, ciò che probabilmente non potrà accadere oggi. Proprio da quella tragedia nazionale la leggenda vuole che un piccolo bambino di dieci anni promettesse al padre di vendicare l’onta e otto anni dopo, col nome di Pelè, segnasse la svolta del calcio brasiliano e mondiale. E sempre da quel luglio del ’50 il Brasile abbandonerà la tradizionale maglia bianca, “vuota di emozioni”, per adottare la camiseta con il giallo, i riflessi oro e il verde che ogni bambino brasiliano che gioca nel fango, sulla sabbia o sulla pelada, ha sognato di indossare un giorno sui “veri” campi di calcio. Almeno fino ad oggi.
No País do Futebol contiene storie di calcio e storie di una cultura, le radici del samba e delle telenovelas, riferimenti musicali, letterari e cinematografici, indicazioni turistiche per chi, anche dopo questi giorni di Brasile-centro del mondo, sarà incuriosito e vorrà conoscere dal vivo questa terra: Barba intreccia dati, informazioni, analisi con un’ottima tecnica narrativa, in cui la passione personale e l’interesse scientifico appaiono in filigrana in ogni capitolo.
Se la prima parte del libro è studio antropologico (peraltro comprensibile a tutti per linguaggio e stile narrativo), la seconda, pur conservando questo taglio di fondo, è quasi una guida per leggere e muoversi nelle città di cui in queste settimane abbiamo visto quasi esclusivamente le immagini degli stadi.
Al termine della lettura non si può fare a meno di chiederci quanto possiamo apprendere da questo Brasile, quante lezioni di meticciato, che nessuna sconfitta sportiva può cancellare, dobbiamo acquisire noi stessi.
Ora le domande che restano al lettore, alla luce di questo nuovo dramma nazionale, saranno ancora di più: come reagirà il Brasile al nuovo lutto? Come l’elaborerà? E cosa potremo apprendere, tutti noi, da questo “Paese del calcio”?
Bruno Barba, No País do Futebol. Brasile 2014. Il calcio torna a casa. Un viaggio antropologico, pref. Enrico Currò, edizioni effequ, pp. 240, euro 14
Luciano Minerva