Il vuotabotte
1.
Essendo un preambolista (o premessaiolo) inveterato e militante, dapprima debbo dire che, in questo par di settimane, ho cercato inutilmente di scrivere un commento, o un articolo, o lo si chiami come maggiormente aggrada, su quel che è accaduto a Portoferraio e all’Elba tutta lo scorso tredici di Febbraio. Inutile. Ci avrò provato per dieci o quindici volte, buttando via tutto dopo dieci righe scritte a mano; mi venivan fuori cose violentissime, desolate, desolanti e infarcite di bibliche maledizioni e bestemmie che, conoscendomi, avrebbero potuto farmi correre il rischio di finire davanti a una corte di giustizia con una tonnellata e mezza di querele sul groppone, o di subire il malleus della Santa Inquisizione. Cosa di cui, alla mia età, tenderei volentieri a fare a meno dato che non ho manco un po’ l’hobby di finire in galera o al rogo. Mi occorrerà quindi ricuperare un po’ di equilibrio, che è un indubbio beneficio della vecchiaja. E poi, putacaso finissi a Alcatraz o arso davanti alla Biscotteria, chi si prenderebbe cura del mio amatissimo gatto con il quale vivo in simbiosi…?
Nel frattempo, mi è venuto comunque in mente di “commentare” ricorrendo a quel che, forse, so fare un po’ meno peggio delle altre cose: raccontare storie. Quella che state per leggere, infatti, è grosso modo una storiella relativa ad un’alluvione elbana. O meglio: un episodio avvenuto in quel di Marina di Campo parecchi anni fa, ma parecchi sul serio. Come vedrete, si tratta anche in questo caso di una specie di “storia di Natale”; ma lo è perché l’alluvione campese di cui vado a narrare avvenne proprio l’antivigilia di Natale. Un’altra particolarità di questa storia è che mi è arrivata, da mia madre e da una mia zia, già quand’ero bello grande, anzi, proprio òmo fatto e vagamente simile a un orso bruno; non s’era nel famoso portico, ma in cucina, una sera d’estate col ventilatore che girava dal soffitto, gli zampironi, i resti della cena e una cuginetta di quattro anni che faceva ammattire i genitori dato che aveva deciso di torturare una povera gatta che non ci stava minimamente a subire i tormenti della pargoletta. E fu così che mia madre e mia zia cominciarono a fare come una volta: a raccontare una storia. Alla bambina non importava nulla, dato che aveva cominciato a fare le bizze per il gelato e per essere portata alle giostre in pineta; in compenso, il famoso “òmo fatto” di cui sopra, tornava bambino all’istante nonostante il suo aspetto da cavernicolo.
Come vada di solito a Marina di Campo quando mette sciroccaccio fuori stagione, lo si è visto non molti anni fa, il 7 novembre 2011. Tout est bouché; i fossi sono generalmente tenuti da fare orrore a Frankenstein, il mare sciroccato “pigia” e s’allaga tutto il paese con due metri d’acqua salmastra lurida mentre viene giù un’acquata da fare spavento. Il paese sì, e soprattutto le zone in depressione, dove è stato costruito di tutto dove non si doveva costruire nulla. Disgraziatamente, quel bruttissimo giorno ci scappò il morto, anzi la morta; una povera donna mezza paralizzata che pure conoscevo mediamente bene, dato che era stata un’amica di mia madre e, se ben mi ricordo, pure una sua compagna di scuola. E mi sia permesso un pensiero rispettoso, anche a distanza di anni, a quella poveretta morta innocente in un modo atroce, che non desiderei nemmeno per il mio peggior nemico. Ma, a Marina di Campo, non è una novità. Ho perso il conto delle volte che, per un semplice acquazzone settembrino (allora, il dott. Sanò di “meteo.it” non aveva ancora coniato la definizione di “bomba d’acqua”), tutto lo Stagno era finito allagato, con tanto di villette, casette, posta, carabinieri, Conad, scuola, piazza del mercato e tutta “Longarone”. Oh, se il posto si chiama “Stagno” (o Stagnone) ci sarà stato un prosaico & geografico motivo…
2.
E così andò, mi raccontavano la mamma e la zia, l’antivigilia di Natale del 1943. Mia madre, classe 1933, aveva dieci anni; mia zia, che in realtà era l’ultima sorella minore di mia nonna, ne aveva invece sedici ed era già una bella ragazzina da marito (tant’è vero che non s’è mai sposata). Bisogna, naturalmente, tenere conto del periodo leggermente particolare, e del fatto che il 94,18% delle storie raccontate “in duo” da mia madre e da mia zia si riferivano al tempo di guerra. L’Elba era sotto occupazione germanica; vigilavano ronde di poveracci in uniforme della Wehrmacht, venuti da chissà quale Pomerania o Turingia, mentre la “normale amministrazione” era ancora, almeno nominalmente, demandata alle strutture fatiscenti dello stato fantoccio italiano, che poi era la Repubblica di Salò. Tra di esse, la guardia di Finanza. In quei tempi, ci si doveva pur sempre occupare di dazi, gabelle e, soprattutto, di contrabbando e mercato nero; ma ha’ voglia. Il mercato nero e il contrabbando erano, pure in quel minuscolo pezzo di mondo in guerra, l’unico modo per campare.
Tra i finanzieri della postazione ce n’era in particolare uno, mandato lì dalla provincia di Viterbo, che era arrivato con la moglie istriana, o croata, e con una bambina d’un paio d’anni. A questo punto immaginatevi la scena: le due narratrici, con gesti plateali, cominciano ad esprimere sdegno accorato: “mìììììì, ma te ne riòrdi…?” “e me ne riòrdo si, èreno più sùdice der bottino tutt’e due…!!”. Il fatto è che sia la madre che la povera bimba erano un prodigio di sporcizia, un’antologia del lezzume, un florilegio di loja; la mamma trincava il trincabile e non faceva assolutamente nulla da mane a sera, e la bambina ne pagava principalmente le conseguenze. A quel punto, mia madre e mia zia, indignate, erano passate all’azione: educate com’erano state a fare le donne di casa fin da bambine piccole, perdipiù da quella generalessa di mia nonna che doveva pure andà’ a lavorà’ perché aveva perso il marito anni prima agli stabilimenti, erano andate a parlare con il finanziere e con la moglie per occuparsi della casa, della pulizia e della cura della bambina, dietro allungamento di qualche cosa di monetario o di mangereccio. Ovviamente, non gliene era parso il vero; senza contare che le due ragazzine giocavano coscienziosamente, e divertendosi un mare, al più bel gioco del mondo: quello di fare le mamme.
E il padre? Lui ne aveva già abbastanza di gatte da pelare, portava il pane a casa, e se la sbrigassero loro. Il pane, e soprattutto il vino, dato che il bàcchico nettare gli garbava parecchio, e che per un fiasco di quello buono chiudeva più che volentieri un occhio, e spesso anche tutt’e due, su certi trafficucci che avvenivano nei dintorni specie quando arrivavano certe barchette, zitte zitte a notte fonda. Era la lunga notte del ‘43, e oltre che lunga, a Campo poteva succedere anche che fosse buia e tempestosa, come in ogni novella che si rispetti e senza scomodare Snoopy.
Il 23 dicembre 1943, infatti, nel paese deserto e sotto coprifuoco si era scatenato il putiferio climatico. Una buriana terrificante, raccontano mia madre e mia zia, scoppiata verso le dieci della sera: lampi, tuoni, fulmini, saette e acqua a vagonate, altro che catinelle. Insomma, la classica sciroccata campese che agì come di consueto: il mare, spinto dal vento, tappò i fossi che nel frattempo s’erano riempiti d’acquaccia, e che andarono di fuori allagando il paese. I fossi, e qualunque cosa contenesse acqua; tra cui i vuotabotte (pron. vòta-). I vuotabotte erano, grosso modo, quelli che ora si chiamerebbero fosse biologiche; però, allora, erano delle cisterne a livello suolo, chiuse da botoloni di legno, nelle quali si vuotava, appunto, la botte, vale a dire il bottino, come si dice in Toscana e ora così sapete anche perché. Breviter: le acque nere di casa (altresì dette cacca) perché di fognature non ce n’erano e si doveva prendere i propri troiai a mano e vuotarli nella cisterna. Generalmente, i vuotabotte erano scavati vicino ai fossi, nei quali scaricavano; e tutto poi andava a finire allegramente in mare, ché, tanto, di turisti ancora non c’erano a parte qualche tedesco in gita sociale organizzata dall’armata Hitleriana.
Il finanziere di Viterbo o provincia, proprio quella notte, pare se ne stesse tornando a casa con della merce preziosa: due autentici fiaschi di vino nero, consegnatigli da qualcuno per servigi sui quali sarà forse meglio non soffermarsi. Procedeva sotto la bufera, nel paese deserto e buio, tenendosi stretti i fiaschi come fossero stati suoi figli e bagnato come un pulcino. Si dà il caso che, a un certo punto, fosse incocciato proprio in un vuotabotte aperto, dato che il fetente orrore liquido e melmoso che c’era dentro era salito, salito e salito fino a spalancare i botoloni, uno dei quali era poi volato via per il vento. Andò quindi a finire che, non vedendo nulla, smosso dal vento e inzuppato d’acqua fino alle ossa, il poveraccio inciampò e ci cascò dentro.
3.
Risate a crepapelle in cucina, la gatta dorme dopo che l’infernale cuginetta è stata portata via dai giovani genitori (ulli ulli…), e mia zia, che è sempre stata una parecchio seria, corregge subito il tiro: “Ridi ridi, ma voré’ vedé tene”… E infatti non era roba da ridere, specialmente per il povero finanziere che era volato dentro, al buio, dentro metri cubi d’acqua lurida. Insomma, come dire: stava affogando nella merda. Cominciò a gridare aiuto!, aiuto!; ma, gridando, si premurava di tenere in alto, con un braccio, i due fiaschi di vino. Affogare, ci può stare; affogare nella merda, vabbé, in tempo di guerra magari ci può stare anche quello, specie quando un uomo della Provvidenza ci ha fatto affogare una nazione intera. Tutto ci può stare, a condizione di salvare il vino. Perlomeno, morire tentando di compiere quest’atto di fulgido eroismo. Immerso in questi estremi pensieri, il finanziere stava oramai soccombendo al suo tremendo destino quando fu udito, miracolo, da una pattuglia di soldati tedeschi, in perlustrazione anche se si dovevano probabilmente chiedere cosa cacchio ci fosse da perlustrare in un paesino sperduto su un’isoletta, in una notte come quella e sotto coprifuoco -che in quel frangente era piuttosto un copriacqua.
Quando uno grida “aiuto” lo si capisce in tutte le lingue, anche senza parlarle. Dipende, naturalmente, se si vuole aiutare o meno, e se magari si è disposti a mettere, se necessario, a repentaglio la propria vita. Avrebbe potuto urlare anche in cinese, il finanziere; e quei due ragazzi, venuti chissà da quale Sankt Peter o Sankt Hilarius in Bassa Sassonia, non ci pensarono due volte. Ignoro se, vedendo alla bell’e meglio la scena davanti ai loro occhi, prima di buttarsi coraggiosamente nel vuotabotte a salvare il finanziere e i suoi fiaschi, si siano concessi una scarica di risate pure loro; lo tirarono fuori a fatica, provando comunque che la merda, in fondo, ha un sapore assai più gradevole della guerra. Sotto la pioggia battente, col finanziere con le lacrime agli occhi, col paese mezzo allagato, coi fiaschi di vino strenuamente difesi, con gli abbracci, i dànche dànche e con le uniformi che grondavano chissà cosa, pensarono di rifugiarsi nel primo posto disponibile all’asciutto. La prima porta che trovassero aperta; facile a dirsi.
Una, però, c’era. Era l’antivigilia di Natale, ricordate. Nonostante tutto, la porta della chiesa, quella vecchia del porto dove i miei genitori, per sposarsi, hanno scelto un venticinque aprile (del 1953, per la precisione), era stata tenuta aperta. Nessuno ci poteva entrare per il coprifuoco; e così, del tutto inaspettatamente, l’esterrefatto gesubbambino nella mangiatoia si vide piombare all’improvviso, in quella nottata d’inferno, tre tizi bagnati e smerdati fino nel midollo, con due fiaschi di vino in mano.
Non so come sia andata a finire, mentre Marina di Campo si faceva tranquillamente alluvionare il 23 dicembre del 1943, ché data più infame non la poteva scegliere Giove Pluvio. Non so, e non lo seppero neanche mia madre e mia zia, che fine abbiano fatto il finanziere, la sua famiglia, i due soldati germanici. Dove saranno andati a rifinire, in qualche guardia di finanza a Isola di Capo Rizzuto o a morire nei pressi del Reichstag devastato o in un qualche campo di prigionia in Siberia. Non si sa. Mi sia permesso però d’immaginare che il parroco, la mattina del 24, li abbia trovati in chiesa a tutti e tre, briachi come tegoli, con la mangiatoia trasformata in bevitoia e i fiaschi rigorosamente vuoti. Un presepio senza l’eguale: tre poveri cristi addormentati che puzzavano di merda e di vino, il Cristo legittimo titolare che voleva la puppata, la sua sacra famiglia (cui sono certo sia stata offerta una bevuta), ir bue e l’asinello, i re, le comete, le peorine e tutto il resto.
Riccardo Venturi