Nei mesi invernali, da dicembre a marzo, ma non durante le vacanze natalizie, Irene col fratellino, la mamma e il babbo, quando c’era, abitava in paese, in un appartamento al primo piano che era stato costruito dai suoi nonni paterni, Umberto e Leontina. La nonna era morta, ancora giovane, l’anno precedente e Irene ne custodiva nel cuore il ricordo di una donna dallo sguardo dolce e malinconico, molto devota e presente ad ogni appuntamento religioso nella piccola chiesa di San Giuseppe. Il nonno, pescatore diventato poi falegname, aveva sofferto moltissimo di quella grave perdita e aveva compensato con un surplus di scontrosità il dolore della vedovanza.
Abitava con la figlia Lia, il genero Aldo, anche lui imbarcato, e le due nipoti Lucia e Mirella, in una casa del vicinato, ma la piccola falegnameria era attigua all’appartamento del figlio, ossia del babbo di Irene. La porta dava sullo stesso corridoio su cui si affacciava il bagno e, dalla parte opposta, la cucina e la sala, cosicché un po’ di segatura e qualche ricciolo di legno finivano sempre, malgrado gli sforzi della mamma di tenere pulito, su quello che un tempo era stato un ballatoio esterno. Ai due bambini quel laboratorio artigianale di porte, infissi, persiane, sedie e tavoli piaceva un sacco e non li stancava sentire il rumore del martello o quello della sega. Il nonno non li voleva tra i piedi quando lavorava perché lo spazio era poco e tanto il pericolo di farsi male con gli attrezzi o respirando i veleni delle vernici, ma loro ogni tanto entravano, per la mano, sentendosi un po’ ladri e un po’ eroi e guardavano i pezzi in lavorazione, aspiravano l’odore della colla, pestavano la segatura che poi inevitabilmente portavano sui pavimenti delle altre stanze:
-Vi ho detto che non ci dovete andare, nella falegnameria, specialmente quando non c’è nonno!- li brontolava la mamma –e pericoloso, capito? E tu Irene, che sei grande, sei responsabile anche di tuo fratello!-
Lei arrossiva mortificata e imbronciata, incredula che un’attrazione così forte e così a portata di mano dovesse esserle preclusa.
La permanenza nella “casa del Cavo” nel cuore della stagione fredda si giustificava con la maggiore vicinanza alla scuola e alle necessità di tutti i giorni: le botteghe di generi alimentari, il forno, la macelleria, la posta, l’ambulatorio medico…ma alla bambina mancava il quotidiano dialogo col mare e si adattava a quel soggiorno solo perché le settimane passavano veloci e la mattina poteva restarsene una mezz’ora di più nel suo lettuccio caldo.
Le stanze erano spaziose e con soffitti alti, ma piuttosto fredde. Per tentare di riscaldarle troneggiava, in cucina, una bellissima stufa a legna di ghisa, che fungeva anche da piano di cottura e, all’occorrenza, da forno. Là si stava benissimo e infatti quello era il cuore della casa: non solo il luogo dove si consumavano i pasti, ma anche quello in cui si facevano i compiti il pomeriggio e s’ascoltava la radio la sera. L’apparecchio era collocato su un basso tavolino, di lato alla finestra: dopo cena, mentre Francesco stava seduto su un tappeto con i suoi trastulli e la mamma era intenta al cucito, lei si godeva quella pace familiare ascoltando la musica o gli sceneggiati che venivano trasmessi e intanto disegnava o scriveva sui vetri appannati che la dividevano dal nero della notte.
La sua passione era quando, facendosi schermo con le mani, riusciva a vedere il cielo d’ebano punteggiato di stelle tremolanti o la luna piena, bella, maestosa, fiera, una frittata di dieci uova appesa là fuori.
Stare in paese le piaceva anche perché c’erano tanti bambini nel vicinato –Mirella, Lucia, Gabriella, Daniele, Giuseppe- con cui poter giocare per pomeriggi interi, finché la luce resisteva prima di cedere il passo alle precoci ombre della sera:
-A che si gioca?!- era la domanda di rito, appena ci si ritrovava dopo il pranzo
- Giochiamo a vendere!-
- No, giochiamo a nascondino!!-
- E se andassimo a cercare mandorle a Belvedere!?-
-E se giocassimo coi bambolotti e ci facessimo aiutare da Flora a fargli i vestitini?-
-No, ma io sono un maschio, non posso giocare coi bambolotti!-
Alla fine si faceva la conta e il fortunato imponeva il gioco di quel giorno, con qualche muso lungo da parte dei più ostinati che non si volevano adattare.
Quel che preferiva Irene erano le arrampicate sugli alberi, fossero i mandorli da cui si coglievano i frutti dal cuore tenero o i maestosi fichi dai rami enormi e contorti che offrivano neruccioli e dotati profumati di miele. Sugli alberi, se si trovava un improvvisato sedile, si potevano trascorrere ore ed ore, a chiacchierare, ridere e immaginare improbabili avventure arboricole, simili a scimmie agili e dispettose, seminascosti dal fogliame e dalla curiosità dei grandi che, per qualche tempo, li perdevano di vista.
Ma il sabato e la domenica pomeriggio tutti i bambini del paese tradizionalmente si ritrovavano dalle suore, cioè nella sala o nei cortili dell’orfanatrofio fatto costruire da Don Dino per accogliere minori in difficoltà. Lì, tutti insieme e guidati da qualche suora di grande pazienza, giocavano a oh che bel castello, a ruba bandiera, a tutti i possibili girotondi, e a preparare recite con cui deliziare genitori e parenti. Alle cinque in punto del giorno festivo non mancavano di vedersi Tutti in pista e di sgranocchiare le merendine del Piano Marshall che erano giunte anche in quello sperduto angolo di mondo. Ma non mancava mai, negli assolati pomeriggi di primavera, quando i prati, le colline e i fossati erano un incanto di margherite, vilucchi, ranuncoli e fiordalisi, qualcuno che chiedesse:
-Suora, andiamo a fare una passeggiata!?-
E il più delle volte, raccomandandosi che stessero buoni, la povera donna cedeva. Ma mentre le bambine, diligentemente tenendosi per mano, cantavano e stavano intorno alla loro guida, i maschi, più spontanei e liberi, si allontanavano in cerca di lucertole o altri insetti con cui spaventavano a morte le coetanee, che volentieri, pur abbandonandosi a urletti e linguacce di apparente disapprovazione, si lasciavano impaurire, attratte e ammirate dai più disinibiti di quei ragazzi.
Ma, ancor più della dolce primavera, per Irene il periodo più bello dell’anno era quello prenatalizio: non solo perché ritornava il babbo e si trasferivano di nuovo per le feste dai nonni, a Capocastello; ma anche per l’atmosfera magica che la sua fervida immaginazione ricreava per farne rifugio ai suoi pensieri e ai suoi incantamenti.
Si cominciava con le novene: la sera dopo cena, anche se soffiava la tramontana o i geloni davano il tormento, imbacuccati come non mai –cappotto, sciarpa, guanti, berretto- si usciva di casa per andare in chiesa. Il freddo pungente la investiva e le appannava lo sguardo ma la luna, che a volte, in tutta la sua pienezza, splendeva alta e meravigliosa nel cielo, le comunicava, con quel suo bagno di luce e di bellezza, una sensazione di appagamento e di serenità, che l’avrebbe poi accompagnata per tutta la serata. Per l’occasione veniva un predicatore, di solito un francescano, di grande capacità oratoria: Irene, pur capendo la metà di quello che diceva, l’ascoltava a bocca aperta per l’impeto che conferiva alle sue prediche. Poi era intonato il Regem venturum dominum che tutti cantavano con grande convinzione anche se pronunciavano parole latine sconosciute alla maggior parte.
Uscendo, il freddo arrossava le guance ma gli occhi si beavano alla visione di una volta celeste nitida e stellata come non mai. Il cielo, infatti, in certe sere di dicembre particolarmente nitide pareva una coperta nera trapunta di stelle, mentre in altre, umide e sciroccose, mostrava una coltre di nuvole basse e stanche, che non vedevano l’ora di liberarsi del loro contenuto.
Con la serenità nel cuore, nell’aspettativa di qualcosa di dolcissimo e misterioso che stava per compiersi, a Irene, ormai al caldo del suo lettino, capitavano i sogni più belli di tutto l’anno.
4. continua
Maria Gisella Catuogno