In quelle ultime settimane dell’agosto 1814 il caldo a Portoferraio era opprimente.
Nel centro storico, la pietra delle abitazioni e il lastricato delle vie e delle piazze tratteneva il calore del giorno restituendolo la sera e la notte, così che nemmeno quando il sole finalmente scompariva all’orizzonte, dopo il fuoco delle ore di luce, gli abitanti trovavano ristoro. La sensazione d’afa era palpabile perché spirava spesso lo scirocco che irritava l’umore col suo carico d’ umidità.
L’imperatore, dalla villa dei Mulini, aveva traslocato in campagna, alla villa di san Martino, ma, boccheggiando anche qui, aveva deciso di trasferirsi in montagna, in un posto fresco e ventilato, all’ombra dei castagni, seppure lontano dal capoluogo: il romitorio della Madonna del Monte, sopra Marciana.
Non era il caso di portarci Mère Letizia, per l’asperità del luogo e la faticosa salita che lo precedeva, cosicché l’avrebbe alloggiata in paese, in un appartamento che dominava tutta la vallata sottostante e dal quale la vista spaziava sul turchino del mare, dalla Marina di Marciana fino al golfo di Procchio, alla Biodola, all’Enfola, al promontorio di Portoferraio.
Un orizzonte che allargava il cuore e faceva dimenticare per qualche tempo le esigue dimensioni dell’isola e la condizione dell’esilio. Per sé non aveva dubbi: avrebbe sostato alla Madonna del Monte diverse settimane. Il disbrigo delle faccende più pressanti sarebbe stato affidato al suo maresciallo di palazzo, generale Bertrand, ma lui stesso, nelle prime ore della mattinata o in quelle successive al tramonto, avrebbe affrontato a cavallo, senza esitare, i chilometri che lo dividevano da Portoferraio, se la sua presenza fosse stata indispensabile.
Così, nella frescura, Napoleone stava trascorrendo l’ultima settimana d’agosto. La tenda dove alloggiava era a due passi dalla chiesetta e questo già gli trasmetteva un senso di pace e di serenità. Le sorgenti che zampillavano acqua purissima dalle bocche in pietra del Teatro della Fonte, nell’esedra all’esterno dell’edificio, gli rilassavano la mente: la rapidità del pensiero, che correva incessantemente da Fontainebleau ai campi di battaglia, dall’umiliazione delle sconfitte all’esaltazione delle vittorie, dal ghiaccio della campagna di Russia alla primavera fiorita di ginestra della sua Corsica, dalla dolcezza di Giuseppina alla durezza di Maria Luisa, che si ostinava a non portargli il figlio per rendergli meno amaro il sale dell’esilio; quella rapidità di pensiero, appunto, che lo sfibrava per la sua intensità, trovava requie finalmente; e allora gli era possibile godersi l’altezza del cielo, che pareva infinito in quelle giornate agostane, lo splendore dell’ambiente circostante, incastonato dai dirupi di granito che assumevano forme umane o animali, a seconda della prospettiva, la sensazione di sicurezza che gli trasmettevano quei castagni secolari, che portavano impresso, nella solidità tormentata del tronco nodoso, il segno della lotta per la sopravvivenza sostenuta contro l’usura del tempo e l’avidità degli uomini.
Di tanto in tanto poi varcava la soglia della chiesa e s’incantava a guardava l’affresco della Madonna Assunta con gli angeli musicanti sul suo sepolcro vuoto o indugiava davanti agli ex voto del piccolo portico interno: erano quasi tutti di soggetto marino e alludevano a pericoli miracolosamente scampati e alla salvezza concessa quando già i flutti sommergevano l’imbarcazione e il povero naufrago disperava di potercela fare.
Ecco, anche lui, in fondo era un naufrago: scampato all’ultima disfatta, era approdato su quest’isola assediata dall’azzurro del mare e dal verde della macchia mediterranea, e tentava di sopravvivere, ricreandosi un microcosmo accettabile con gli affetti familiari, i militari fedeli, una minuscola corte, molti sudditi adoranti. Ma la sua smania d’azione, quella febbre incessante del fare che non gli dava tregua, riducendolo a dormire pochissimo e mangiare in un quarto d’ora, poteva trovare soddisfazione in un regno tanto piccolo?
Lui, che aveva conosciuto il fasto di Versailles e di Fontainebleau, lui che aveva messo sottosopra l’Europa, rigirandola come un calzino, e deposto sovrani, creato repubbliche, fondato un impero; lui che aveva acceso guerre in tutto il continente e costretto a combattere centinaia di migliaia di soldati, violando col suo esercito le sterminate pianure russe o approdando in Africa a spargere sangue all’ombra delle Piramidi; poteva, lui, accontentarsi dell’Isola d’Elba?
Qualsiasi altro esule avrebbe risposto “Sì!” Per la bellezza, anzitutto, di quel luogo: nel profilo delle sue colline, ammantate di vigneti su su, fino alla sommità; nella ricca articolazione delle sue coste, piene di anfratti, capi, promontori oppure di ampie o minuscole spiagge; nella trasparenza del cielo; nella mitezza del clima, nella varietà della vegetazione; nei suoi borghi costieri e montani, piccoli come presepi eppure tenacemente avvinti al proprio campanile, riconosceva con nostalgia i tratti della sua Corsica. E l’amata ma trascurata terra natia la poteva scorgere da lì, a pochi chilometri dalla tenda, in lontananza, con la cresta delle sue montagne e l’arditezza del monte Cinto.
Bastava percorrere un sentiero lungo quell’altopiano, scoprire dall’alto le riviere sottostanti, odorare per mezz’ora la dolcezza dei corbezzoli maturi, osservare il verde tenero dei ricci dei castagni… e la sua Corsica sarebbe apparsa, d’incanto, all’orizzonte.
Col cannocchiale poteva scorgere le case di Bastia, i loro tetti di tegole rosse!
Dunque, anche soltanto la bellezza di quei posti gli sarebbe potuta bastare!
Per non parlare delle potenzialità economiche dell’isola che possedeva le miniere di ferro più importanti d’Italia! Se lui fosse riuscito a razionalizzarne l’estrazione e a modernizzarne gli impianti, chissà quanto avrebbero reso!
E così poteva essere per l’agricoltura: l’isola era un “giardino”, dicevano i vecchi, ossia era tutta coltivata e produceva vino, olio, grano, frutta. Molti bastimenti partivano carichi dalla Marina di Rio e dalla Marina di Marciana per vendere quei prodotti in continente e lui più volte ne aveva visto le vele dispiegate attraversare il canale e sparire all’orizzonte.
Anche in quel settore d’importanza primaria si potevano introdurre migliorie, tentare coltivazioni nuove, superare gli ostacoli di una proprietà fondiaria troppo frazionata.
Quanto poteva operare a favore di un’agricoltura moderna e competitiva! E così anche per il sistema viario: al suo arrivo aveva potuto constatare che era in pessime condizioni e assolutamente insufficiente a collegare tra loro i vari centri abitati; già si era dato da fare per costruire nuove strade ma occorreva impegnarsi molto di più!
La concentrazione su tali pensieri gli allontanava momentaneamente lo spettro dell’ansia e dell’insoddisfazione, ma poi, entrambe, come vampiri assetati di sangue, ritornavano a morderlo e lui non aveva più la forza di opporre resistenze.
Allora si lasciava sopraffare dall’umor nero e dalla rabbia d’essere diventato, da padrone d’Europa, il sovrano di un misero regno di duecentotrenta chilometri quadrati; dall’angoscia di non rivedere più il suo unico figlio legittimo –altri ne aveva sparsi per il mondo- perché sua moglie non aveva nessuna intenzione di raggiungerlo all’Elba, non rispondeva ai suoi inviti e gli faceva persino mancare loro notizie.
Maria Luisa, che delusione, anche lei! Gli era parso, ad un certo punto del loro matrimonio, che potesse amarlo: non aveva forse ripudiato la dolce e comprensiva Giuseppina per lei? Non aveva forse scorto nei suoi occhi chiari, più di una volta, il segno di una complicità con lui, di un desiderio di lui?
Eppure, nel momento del dolore, della sconfitta, dell’umiliazione, si era mostrata scostante, era ritornata ad essere l’austriacante che pendeva dalle labbra del padre, non certo tenero con suo genero.
Allora sentiva montare l’insoddisfazione come fa la marea con la luna crescente.
Era giovane, ancora: aveva solo quarantacinque anni, troppo pochi per gettare la spugna e accontentarsi! Doveva studiare un piano, fare progetti di fuga e di nuova gloria!
E, intanto, far finta di nulla, mostrarsi soddisfatto, operoso, contento del tributo degli isolani, che gli avevano preparato una bellissima festa di compleanno, il quindici di agosto, con parate, fuochi d’artificio, ballo all’aperto, in Piazza d’Arme, sotto il cielo oscuro punteggiato di stelle.
E lui si era sentito appagato, ma solo per un attimo, poi era ritornata la sgradevole sensazione di essere ormai un re di cartapesta, il reuccio delle fiabe che si raccontano ai bambini, misero e ridicolo. Anche per vincere quello stato d’animo, che tardava ad evaporare e a disperdersi nell’afa estiva, era venuto alla Madonna del Monte.
Ma c’era un’altra ragione, che non confessava nemmeno a se stesso, tanto temeva che svanisse, anch’essa, come la brina alla carezza del sole mattutino: la speranza che lo raggiungesse sull’isola, al posto dell’altezzosa moglie, un’altra donna, una donna che, da quando l’aveva conosciuta, occupava un posto stabile nel suo cuore tormentato: la tenera Maria Walewska, la contessa polacca che l’aveva fulminato con la sua bellezza elegante e sensuale, con la sua modestia e timidezza e con i suoi modi gentili.
L’aveva incontrata sette anni prima, ad un ballo di Capodanno organizzato dalla nobiltà polacca in suo onore, a Varsavia, per spingerlo a condividere le ragioni dei patrioti e a restituire uno stato alla Polonia, diventata un nome fantasma, da quando se l’erano spartita austriaci, russi e prussiani
Lui poteva aiutarli! Lui, che aveva sconvolto la carta geografica dell’intera Europa, poteva ridare alla Polonia il suo territorio! Per questo c’era un gran ballo nella capitale la sera del primo gennaio 1807.
E Napoleone, imperatore da tre anni, aveva partecipato e aveva scorto nel salone illuminato da immensi lampadari, tappezzato d’arazzi e impreziosito da marmi, la più bella creatura che mai avesse visto. L’abito di velluto e pizzo nero, in stile impero, come si conveniva alla circostanza, fasciava un corpo esile e armonioso; i capelli biondi erano raccolti in un morbido chignon sulla nuca, con riccioli che scendevano sui lati a incorniciare l’ovale perfetto, come in un’antica statua greca; la carnagione spiccava per il suo candore e tutta l’espressione del viso prendeva luce e vita da due immensi occhi blu.
“Enchanté!” non aveva potuto fare a meno di sussurrarle lui ed era la pura verità, non un complimento. Incantato, sì, incantato per sempre da quella stupenda creatura. Aveva ballato con lei e avvertito, sotto la morbidezza della stoffa, la sua carne giovane e fresca.
Il desiderio di lei, fin da quella sera, aveva cominciato ad assediarlo senza sosta.
Maria, nata Laczynski, all’inizio aveva opposto resistenza: era una donna onesta, d’alta e prestigiosa nobiltà, sposata, suo malgrado, da tre anni, al conte Walewski, di cinquantadue anni più vecchio di lei. Il conte l’aveva resa madre due anni prima e lei, pur non amando suo marito e pur essendo una fervida patriota, non voleva certo diventare una delle tante amanti di Napoleone!
Però, l’assedio dell’imperatore era stato talmente assiduo e forte la spinta della nobiltà polacca, complice lo stesso conte, a spingerla tra le sue braccia “per il bene della patria”, che lei, alla fine, aveva ceduto.
La prima volta con lui si era sentita davvero un agnello sacrificale, offerto alla bramosia del Principe, ma l’irruenza e la tenerezza di lui l’avevano commossa.
Così, d’appuntamento in appuntamento, si era affezionata a quell’uomo nel fiore degli anni, che aveva già vissuto tante straordinarie ed opposte esperienze e ne aveva scorto, sotto la dura scorza del potere personale e dell’attitudine al comando, la sua fame di sentimenti disinteressati.
All’inizio aveva avuto quasi ribrezzo di quelle mani ruvide di combattente sulla sua pelle: se le era immaginate sporche del tanto sangue che aveva fatto versare sui campi di battaglia; ma poi, abbandonandosi alla passione di lui, accesa anche lei, come una fiammella, da quel gran fuoco, aveva sperimentato che quelle mani sapienti nell’amore facevano vibrare il suo corpo come un docile strumento al tocco di un abile suonatore, che ne sa trarre melodie inaspettate, e si era innamorata, grata di provare, per merito suo, quel piacere che il conte non le aveva mai saputo regalare in tre anni di matrimonio.
Da allora, quando gli impegni bellici o politici davano tregua, si incontravano: così era accaduto nella primavera dello stesso anno, nel castello di Finckstein, e due anni dopo a Vienna, dopo la conquista della città, ma si erano frequentati più o meno segretamente anche a Parigi, quando lei vi risiedeva.
Naturalmente era rimasta incinta di lui ma non se ne era affatto dispiaciuta, anzi aveva provato un’ebbrezza speciale al pensiero di coltivare nel suo grembo il fiore del loro amore.
Per suo marito quella gravidanza non era né scandalosa né inaspettata: quando il bambino nacque fu chiamato Alessandro Giuseppe e prese il suo cognome. Il conte lo trattò come un figlio secondogenito, lo considerò il frutto del sacrificio di sua moglie per la sfortunata patria polacca e gli dette la stessa educazione del suo Antoni, di cinque anni più grande.
Adesso, nella solitudine ardente della Madonna del Monte, Napoleone smaniava che Maria lo raggiungesse, condividesse con lui quella tenda, anche se per pochi giorni e gli portasse Alessandro, che aveva rubato alla madre gli incantevoli colori del viso e al padre la cocciutaggine e l’indomita volontà del carattere.
Non si era confidato, in quella speranza, che con il fedele Bertrand, ma l’ampiezza e la comodità della tenda, dove era stato montato il suo letto da campo, nonché l’allestimento di alcune stanze dell’antico romitorio e la raccomandazione che parte della servitù, quella più discreta, stesse in allerta per un trasferimento di qualche giorno lassù, avevano lasciato intendere a più d’uno che una visita importante era attesa.
La sera del primo settembre, verso le sette, dopo una giornata più irrequieta di sempre, trascorsa a girovagare come un’anima in pena tra l’ombra dei castagni e il calore dei massi di granito, l’imperatore disse al suo ufficiale d’ordinanza Bernotti di accostarsi a lui e offrirgli la spalla come base d’appoggio per puntarvi il cannocchiale.
La luna stava salendo nel cielo ancora intriso di luce e si annunciava un magnifico plenilunio.
Per qualche interminabile minuto, mentre Napoleone scorreva puntigliosamente l’orizzonte in cerca del segno desiderato, il silenzio fu punteggiato soltanto dal chiasso dei passeri sui rami dei castagni; poi l’imperatore diede quasi un sobbalzo e ordinò al suo uomo, con voce alta e ferma, quasi si trovasse su un campo di battaglia: “Corri subito a Portoferraio, prendi una carrozza a quattro cavalli e altri tre sellati e aspetta là le disposizioni di Bertrand!”
L’ufficiale non fiatò e senza esitare obbedì alla consegna.
Verso le undici, come da disposizioni del generale, si trovava sulla spiaggia indicata.
Il mare era calmo, solo una bava di vento increspava la superficie formando piccole onde che si andavano svogliatamente a rompere sulla battigia; nell’aria aleggiava il profumo della vicina campagna e la dolcezza di miele dei fichi maturi.
La luna era padrona del cielo: alta, splendida, immensa, bagnava della sua luce algida tutta la marina, cosicché ogni contorno era perfettamente distinguibile.
La barca, lasciato il veliero all’ancora al largo, si avvicinava alla riva, mentre i remi silenziosamente si tuffavano in acqua e ne uscivano grondanti. Sopra c’erano due donne, di cui una velata, un bambino e un uomo in uniforme di colonnello polacco.
Senza inciampi, toccarono riva, accolti da Bernotti e da Bertrand; poco dopo il piccolo corteo si mosse in direzione di Marciana: la donna velata con il bambino e la sua accompagnatrice salirono in carrozza, gli altri a cavallo. A Procchio il convoglio si imbatté nell’imperatore che gli era andato incontro con un’esigua scorta; Napoleone salì in carrozza e vi si trattenne fino al paese. All’esterno, insieme al rumore degli zoccoli sul terreno, si udiva un parlottio sommesso e fitto, come di chi deve raccontare e ascoltare tanto in poco tempo, rotto da esclamazioni di gioia e d’affetto pronunciate a voce bassa e commossa. Quando la strada divenne non più rotabile, si dovette abbandonare la carrozza e proseguire a cavallo lungo la ripida salita.
Quasi all’arrivo, Napoleone spronò il suo cavallo e si staccò dal gruppo, per raggiungere prima di tutti la tenda e dare a Maria il suo personale benvenuto in quell’inedita dimora: lo si udì pronunciare, infatti, quando la signora stava per varcare l’ingresso:
“Madame, voilà mon palais!”
Poi chiusero il mondo fuori della tenda e lasciarono che facesse giorno e poi notte; e di nuovo giorno e ancora notte.
Solo il bambino girovagava nei pressi: correva tra i castagni, cercando inutilmente d’abbracciarne l’enorme tronco, giocava con l’acqua del Teatro della Fonte, entrava i chiesa, per mano alla governante, e restava affascinato dai velieri in miniatura che vedeva appesi alle pareti.
“Très beau! Très beau! -sussurrava alla donna- est-ce que je peux les porter ave moi?”
“No! Jamais!” esclamava la donna allontanandolo dagli oggetti del suo desiderio.
Giunse il tre settembre, il giorno del commiato.
Maria uscì finalmente dalla tenda e si guardò intorno: quel che vide le piacque immensamente. Si respirava una pace, un benessere, una serenità in quel posto!
Lo sguardo si posava sempre su immagini gradevoli: l’ampia e verdeggiante vallata sottostante, radure d’erba qua e là con papaveri e margherite e sul terriccio più umido minuscoli ciclamini. Per non parlare del cielo, bello come una promessa, e del mare che palpitava lontano. Lo spirito si innalzava, aspirava all’assoluto, in quella quiete dove il rumore più forte era lo scroscio dell’acqua delle sorgenti.
Oh, potersene restare qui per sempre, accanto al suo uomo, accanto al loro figlio, dimenticare il mondo col suo frastuono, con i suoi drammi, con le sue cattiverie e ristorarsi l’anima a contato con la natura, con i doni semplici e preziosi che essa offre!
Oh, poter scordare Maria Luisa, il Re di Roma, le mogli, i mariti non scelti, il suo divorzio dal conte due anni prima e tutti i pettegolezzi contro di lei, contro quell’amore costretto alla clandestinità e che pure era l’unico autentico grande sentimento dell’uomo che aveva fatto tremare l’Europa e che adesso era condannato all’esilio, ma non domato!
Sì, lei l’aveva sperimentate, in quei due giorni, tutta la pienezza e la profondità della sua passione. Eppure si trovava là, di nascosto, come una ladra, e adesso sarebbe dovuta ripartire. Raccolse con l’ultimo sguardo tutto il nitore di quella giornata di fine estate, si impresse nella mente i colori di quel luogo dove non sarebbe più tornata e rispose all’imperatore che la sollecitava:
“Je viens…je viens…je suis apprêtée a partir…”
MGC