Un diario del festivaletteratura. Non l’ho mai tenuto, neppure per me, in 15 edizioni che ho avuto la fortuna di seguire. Ma questa volta, grazie alla possibilità che mi offre elbareport (“Racconta a ruota libera” mi ha detto Sergio Rossi) ci provo. Avvertendo i lettori che nessun diario di un evento del genere può avere nulla di “oggettivo”, sapendo che tutto ciò che racconterò in questi giorni da Mantova corrisponde a un’esperienza diversa da quella di ciascun’altra persona che è qui, sia un giornalista, un autore, un volontario, un organizzatore culturale, un appassionato di letteratura che ha deciso di venire a Mantova per alcuni giorni. Perché la quantità di percorsi possibili, nell’arco di una giornata, è pressoché infinita, e perché, al di là di quello che hai deciso di seguire all’inizio della giornata, incontrerai persone, parole, pensieri, esperienze che in qualche modo ti resteranno dentro. E perché qualunque percorso inatteso (“aspettati l’inaspettato” avverte da decenni Edgar Morin, sul piano individuale e sociale) può essere fermato nella scrittura, raccontato, condiviso, perché un sasso lanciato nell’acqua crea sempre piccole onde che possono servire ad altri, lontani e sconosciuti.
Il festival comincia in viaggio
Il festival di ciascuno comincia ben prima di arrivare a Mantova. Come ogni viaggio c’è una preparazione, che per il singolo partecipante al festival prende avvio alla fine di luglio, quando gli organizzatori lanciano il programma, on line e su carta. Prima si scorre, poi si legge, poi si studia la lista degli autori e degli eventi. Quest’anno, nei quatto giorni e mezzo che vanno dal mercoledì pomeriggio alla domenica sera, sono 150 gli autori (che comprendono anche i relatori-presentatori), 239 gli eventi, tra quelli a pagamento e a ingresso libero. Degli autori, se va bene e sei un lettore forte, conosci il nome di qualche decina. Dunque decidi, nel mio caso che non ti vorresti perdere, ad esempio, don Luigi Ciotti ed Enzo Bianchi per la tua parte spirituale e sociale, Alfred Brendel, Banda Osiris e Francesco De Gregori per quella musicale a tutto campo, Massimo Recalcati, Eugenio Borgna e Gustavo Pietropolli Charmet per quella del versante psicologico-relazionale, Vivian Lamarque, Sandra Petrignani (che ha appena scritto una biografia su Marguerite Yourcenar), Eric-Emmanuel Schmitt per quella letteraria, Angela Terzani perché non si può perdere, e così via. L’elenco completo basta a coprire almeno i due terzi dei cinque giorni, dalle nove del mattino alle undici la sera. Ma perché non anche Reinhold Messner o Michela Murgia? E tanti altri, i cui nomi o libri ti sono conosciuti o quasi.
Poi, una volta qui, anzi prima ancora di arrivare, tutto cambia, perché è vero che a tutti noi interessa un contatto più diretto con coloro di cui abbiamo letto o sentito o conosciuto, ma è anche vero che il festival è pronto a offrirti sorprese, sempre, basta che ti muova con curiosità, con le antenne alzate e senza dover a tutti i costi seguire il programma che hai preparato. Questo vale per quelli fortunati come me (“la fortuna ci aiuta, ma siamo noi poi a doverla cogliere” diceva Terzani) che hanno l’accredito e possono accedere ovunque, ovviamente. Chi invece viene da vicino o da lontano dovendo acquistare i biglietti (ogni evento costa cinque euro, dieci gli spettacoli) deve affrettarsi a fare le proprie scelte e il proprio percorso da casa, e per tempo, lasciando per gli eventi a ingresso libero la propria libertà di scelta sul posto. Perché una volta a Mantova gli eventi sono pressoché tutti esauriti, e solo una piccola parte di biglietti, con coda conseguente, restano a disposizione.
In corsa si cambia. La scoperta di Teju Cole
Comunque, per quanto mi riguarda, arrivando qui il programma cambia e ti trasporta per percorsi a te stesso sconosciuti fino a poco prima. Capita così che in treno incontri un’amica di lunga data che lavora al festival da anni (la fantastica traduttrice simultanea Marina Astrologo) che a sua volta ti presenta un amico, Alberto Notarbartolo, di cui conosci solo il nome perché ne leggi il nome e gli articoli su Internazionale, e lui stesso ti racconta che da sei anni al Festival tiene un incontro quotidiano, “Le pagine della cultura”, con cui, a partire dalle pagine culturali parla alle nove del mattino con un autore. Così questa mattina, ad esempio, anticipando l’uscita, scopro Teju Cole, scrittore e fotografo newyorkese di origine nigeriana, che mi basta ascoltare per tre minuti per esserne catturato. Nero, quarantenne, l’occhio attento sul pubblico e sull’ambiente come dovesse studiare e fotografare tutto quello che vede, risponde alle domande di Alberto aprendo in pochi minuti finestre di riflessione. Parla di musica, di come sono cambiati i rituali e le caratteristiche dell’ascolto, dalla classica al jazz alla leggera. Ascoltandolo si capisce perché è tornato inaspettatamente di moda il vinile. Perché c’è una bella copertina, un bell’oggetto, e bisogna dedicare attenzione al mettere il disco sul piatto e aver cura del disco e della puntina. E questo è cura, è qualità, di per sé, a cui poi si aggiunge la qualità dell’ascolto. E osserva come la tecnologia e la possibilità di scaricare musica ovunque e in qualunque momento abbia abbassato, e non di poco, la qualità dell’ascolto, creando un logoramento del gusto, un abbassamento delle competenze e delle percezioni. Ma – aggiunge – non mi importa cosa fanno gli altri e cosa faranno le generazioni successive, quando non ci sarò più, se dalle nuvole le musiche e le immagini passeranno direttamente al cervello. Nessuno mi toglierà mai la libertà di scegliere come ascoltare musica, così come di leggere libri cartacei anche se esistono gli e-book, e di prendere e osservare libri di fotografia degli anni ’80, notevolmente più curati di quelli oggi sul mercato.” Bene, sentir queste cose mi apre il cuore e domattina alle dieci andrò ad ascoltare quello che dirà sulle differenze tra New York e Lagos e che ha narrato nel suo Città aperta edito da Einaudi e vincitore dellì’Hemingway Foundation. Le cose che dice sul rapporto tecnologia-qualità mi riportano a un altro evento cui ho assistito ieri sera, l’inaugurazione del Festival. Rewind di qualche ora sul diario (ahi, la tecnologia come incide, e male, sul linguaggio, anche sul mio….)
Far durare ciò che non è inferno
Per la prima volta in diciotto anni niente discorsi di nessun organizzatore, presidente o autorità qualsiasi. Lettura da parte di Luca Nicolini, presidente del Festival, del bel messaggio di Naplitano e parola a Nuccio Ordine, autore di un saggio di successo in tutta Europa, “L’utilità dell’inutile”, edizioni Bompiani.
“Da Mantova non si torna a casa con un conto più solido, o avendo guadagnato soldi, si torna a casa con esperienze, pensieri, certamente più ricchi. Grazie all’invenzione di otto persone che 18 anni fa hanno dato spazio qui a Mantova all’Inutile della letteratura e dell’arte.“ E con toni appassionati Ordine ha parlato della necessità di scelte controcorrente, del recupero, nella nostra vita e nella nostre società, del valore delle scelte gratuite, in contrasto con la dittatura dell’utilitarismo. E della cultura come strumento di resistenza. 500 persone ad applaudire convinte, e un po’ più libere e sollevate (me compreso, che conoscevo e apprezzavo già il suo libro).
Per condividere un po’ di emozione a chi legge da lontano, riporto il brano da Le città invisibili di Calvino: con cui Nuccio Ordine ha chiuso il suo intervento e aperto il festival. Merita di essere riletto (grazie a Wikiquote che me lo fornisce al volo): “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”