Irene sapeva che la primavera in mare comincia un mese prima: gliel’aveva detto il babbo, una volta: le praterie di posidonia sui fondali fioriscono già a febbraio, punteggiando di tenui colori la monotonia del verde, mentre sulla terra solo i mandorli in fiore e le mimose esultanti di giallo osano interrompere il silenzio cromatico dell’inverno. Quella le era sembrata una notizia bellissima, un anticipo, seppure invisibile, della sua stagione preferita. La maestra raccontava poi di certe leggende nordiche che avevano per protagonista una bellissima fanciulla, Eostre, splendente di luce, che faceva rivivere tutto quello su cui si posava il suo sguardo: era per questo che campi, giardini, cigli di strada, alberi e prode si vestivano da marzo dei loro colori più belli, le uova nei nidi si schiudevano, gli animali avvertivano il richiamo irresistibile della vita, che vince il freddo e la morte, si scuotevano dal loro torpore o dal loro letargo e si godevano i primi tiepidi raggi di sole. Ma anche negli esseri umani che la circondavano e in se stessa, la bambina avvertiva dei cambiamenti positivi d’umore, una maggiore disponibilità e affettività, un miscuglio di contentezza e desiderio nel cuore che non sapeva decifrare ma di cui avvertiva con gaiezza il gioioso riverbero.
Perciò a fine febbraio riponeva volentieri insieme alla mamma il costumino di Carnevale con cui pure si era divertita nella festa del giovedì grasso a scuola, per le vie e nella piazza, tra manciate di coriandoli e lanci di stelle filanti, e attendeva fiduciosa lo scorrere dei giorni in attesa dell’amata primavera, quando si sarebbero protratte le ore dei giochi all’aperto, l’aria fuori e dentro casa sarebbe diventata più tiepida, il giardino si sarebbe ornato di fiori e soprattutto sarebbero ritornate dall’Africa le rondini partite in autunno.
Anche in paese, quell’anno, 1960, c’era più fermento del solito perché entro l’estate si dovevano finire i lavori di costruzione del porto, che avrebbero permesso ai traghetti di attraccare, far entrare e uscire le automobili dalle loro pance e messo finalmente a riposo la Laura, il barcone per il trasbordo dei passeggeri sulla nave in attesa all’ancora, al largo. Era tutto un andirivieni di camion, ruspe, operai, un rumore che diventava assordante quando si usava la perforatrice…A Irene questa alacrità piaceva molto perché l’attivismo era insito nella sua natura e non sopportava già da allora di stare con le mani in mano o con il cervello a riposo, vuoto di pensieri.
Aprile poi le avrebbe portato la Pasqua e giugno la Cresima: in quelle settimane, il sabato pomeriggio sarebbe andata dalle suore, al catechismo, per prepararsi al nuovo sacramento che le sarebbe stato impartito addirittura dal Vescovo: non ci sarebbe stata solo la normale lezione ma anche qualche gioco nel cortile, a nascondino o ruba bandiera, con gli amici.
La mattina, a scuola, anche le maestre sembravano più liete e pazienti quando cominciava marzo e narravano ai loro alunni le leggende su questo mese bizzarro, impertinente e giocherellone. Quella che piaceva di più a Irene raccontava della mamma di Marzo, che aveva chiesto al figliolo burlone di scacciare le nuvole grigie e fredde dal cielo per permetterle di asciugare i panni che con tanta fatica aveva lavato al lavatoio pubblico, tra le lamentele delle altre donne che parlavano sempre male di lui, delle sue folate di vento ancora gelido, dei suoi cambiamenti d’umore. Aveva ottenuto da Marzo la promessa di una giornata splendida, col cielo di cristallo e una tramontana forte e asciutta, l’ideale per asciugare. Così la donna aveva lavato tanta biancheria e la sua stessa camicia da notte. Una volta tesi i panni su cespugli di mirto e lavanda per profumarli, se n’era tornata a casa e era andata a farsi un pisolino. Mentre lei dormiva, il figliolo dispettoso, non resistendo alla tentazione, aveva improvvisamente cambiato i colori del cielo: scacciati i cirri di tempo buono, aveva richiamato le nubi di scirocco e cominciato a far cadere sulla terra una pioggerellina fine e dispettosa, che aveva inumidito i panni già asciutti. La mamma di Marzo, destatasi e armatasi d’una gran cesta, era uscita per andare a raccogliere i frutti della sua fatica, quei lenzuoli, quella camicia e quegli asciugamani che aveva offerto la mattina al sole: aveva trovato invece il cielo basso e cupo e la biancheria bagnata. Rabbia e delusione! Era corsa in casa, aveva afferrato la più grossa scopa di saggina che possedeva e aveva cominciato a rincorrere il figlio per punirlo della sua sfacciataggine.
-Ora è ancora lì -diceva ridendo la maestra- che corre con la sua scopa alzata dietro al figliolo che le fa linguacce e scappa…-
Il 21 marzo, San Benedetto, Irene guardò più spesso il cielo per salutare le prime rondini in arrivo: le sembrava davvero scortese che dopo un così lungo viaggio nessuno le degnasse di uno sguardo di benvenuto; ma con grande delusione non ne vide neanche una. Anche i giorni seguenti scrutò in alto e sotto il tetto di casa dove l’anno precedente aveva avvistato un nido…sapeva infatti che raramente quegli uccelli rinunciano alle antiche dimore e le piaceva l’idea che fossero suoi coinquilini.
Passarono altri dieci giorni prima di avvistarne qualcuno.
Il 31, con la cartella in mano, prima di avviarsi a scuola, fece l’ennesimo tentativo:
-Mammaaa, affacciati, sono arrivate…sono arrivate le rondini, finalmente!- gridò in preda a un’eccitazione incontenibile.
In effetti, due capini neri spuntavano dall’orlo del vecchio nido, poco sopra il portoncino d’ingresso.
-Avranno freddo e fame…che possiamo fare!?-
-Stai tranquilla, Ire –rassicurò la donna, ancora in vestaglia e col biberon di latte e biscotti pronto per la colazione di Francesco in mano –si arrangiano da sé, mangiano insetti e si scaldano al sole…vai a scuola serena- e strinse a sé quella figlia troppo sensibile, ancora una volta augurandosi che si costruisse alla svelta una corazza forte contro i mali del mondo e la sofferenza.
Per tutto il giorno la bambina pensò alle rondini, fantasticò sul loro viaggio, chiese ragguagli alla maestra Marcella sugli spostamenti stagionali degli uccelli, raccontò ai compagni del suo tesoro nel sottotetto e non ebbe pace finché non ritornò a casa e si fu personalmente accertata che stavano bene e apparivano meno stranite della mattina.
Marzo aveva appena finito di sgranare i suoi giorni che cominciò l’attesa della Pasqua, che quell’anno cadeva il 17 d’aprile. La preparazione alla festività, in casa e in paese, consisteva anzitutto in grandi pulizie, premessa indispensabile della purificazione interiore. Le giornate, lunghe e tiepide, la brezza stimolante che spirava dal mare, le ripe fiorite, gli alberi in festa già pronti alle gemme consolavano il cuore dei grandi e rallegravano quello dei piccini: si vedeva negli adulti un fervore nuovo nell’affrontare la dura quotidianità: i piccoli se ne accorgevano e si dimostravano più disposti ad assecondarli e ascoltarli. Nelle ore più soleggiate le finestre restavano aperte ad asciugare le stanze che si pulivano a fondo, spostando mobili ed eliminando polvere e ragnatele, si lavavano le finestre, le porte, i pavimenti, si imbiancava se era necessario. Tutto doveva essere in perfetto ordine e profumare soltanto di pulito e di fresie quando il sacerdote passava a benedire la casa e i suoi abitanti.
Irene seguiva attenta tutti i preparativi, teneva Francesco mentre la mamma era indaffarata, coglieva i mazzetti di fiori da mettere in cucina e in salotto.
Poi veniva la Domenica delle Palme e i bambini facevano a gara ad avere la palma più bella e più grande, di un verde tenero nelle sue striscioline più tenere, di un giallo delicato, appena accennato in quelle più robuste, intrecciata da mani esperte, da conservare per mesi dentro casa, insieme al ramoscello d’olivo benedetto, in segno di pace.
La settimana santa, che seguiva, era tra più intense dell’anno: non solo per le Quarant’ore, le funzioni religiose del giovedì e venerdì santo, l’accensione del cero pasquale e la Messa di mezzanotte del sabato, ma anche perché occorreva programmare il pranzo del giorno di Resurrezione e preparare i tipici dolci pasquali. La mamma e la nonna dal lunedì al mercoledì non mancavano di trattenersi a lungo in chiesa a far compagnia, così dicevano al tabernacolo; Irene allora era responsabile del fratello, insieme al nonno o al babbo; gli uomini del paese, di solito, non solo i suoi, erano molto più refrattari alle cose di chiesa delle mamme, delle zie o delle nonne e oltrepassavano il sagrato poche volte: sicuramente nelle feste comandate, Natale e Pasqua, raramente di domenica, sempre ai funerali, mai alle funzioni feriali.
-Mamma, tiriamo fuori le piantine di grano per il Sepolcro?- chiese la mattina del giovedì santo Irene, svegliandosi più o meno alla stessa ora, sebbene fosse il primo giorno delle vacanze pasquali e non ci fosse necessità di alzarsi presto.
- Sì, ora sono pronte e bellissime, così le portiamo in chiesa…-
E insieme uscirono per andarle a prendere nello stanzino, come chiamavano un cucinotto fuori casa che d’inverno fungeva da ripostiglio e d’estate, addossato com’era a una bella pergola d’uva e pampini, era il luogo ideale per preparare i pasti e mangiare all’aperto.
Lì presero dal tavolo le due grandi ciotole di coccio che avevano custodito al buio per mesi, in modo che i chicchi di grano interrati producessero piantine candide, invece che verdi, con le quali era tradizione ornare l’altare il giovedì santo, insieme ai vasi fioriti che ciascuna famiglia portava orgogliosamente in quell’occasione.
-Ma perché sono così bianche?...- chiese Irene
-Perché crescono al buio e senza la luce del sole manca loro la clorofilla che le tinge di verde- spiegò pazientemente la madre
- E perché si dice “al Sepolcro”!?-insistette la bambina-
-In effetti, Ire, non è giusto chiamarlo così perché in questo giorno della settimana santa si ricorda l’ultima cena di Gesù con i suoi apostoli e l’istituzione dell’eucarestia…E’ un ricordo lieto, alla morte ci si penserà domani…-
E s’incamminarono verso la chiesa, con le due ciotole in mano come fossero tesori: l’altare della cappella laterale, di destra, era già pieno di piante verdi, ma anche di azalee, camelie, rododendri, fresie gialle e violette, una festa per gli occhi ed il cuore. Proprio accanto alle statue della Madonna e di Gesù morente stavano altri grani bianchi, posero lì anche i loro e si misero a sedere sulla panca. La mamma invitò la bambina a una preghiera, e poi:
-Irene, sai che la Madonna dei marinai l’ha fatta un artista bravissimo e sfortunato!?-
-Che vuoi dire, mamma?-
- Si chiamava Zulimo Rossellini, era fiorentino e giovanissimo quando vinse un concorso per costruire il monumento funebre a Ugo Foscolo, un grande poeta, in Santa Croce.
Felice da non dirsi, si gettò nel lavoro e ci mise quasi dieci anni a finirlo. Era bellissimo, tutto di marmo e con splendide decorazioni…Solo che nel frattempo al potere, in Italia, era andato un dittatore che non aveva nessuna simpatia per lui, perché Zulimo era un uomo giusto e non sopportava i prepotenti. Allora quel monumento così bello non glielo fecero mettere in Santa Croce e incaricarono un altro artista, molto meno bravo di lui, molto più amico del dittatore, di fare una scultura…Così Zulimo, disperato, decise di lasciare Firenze e tutto il suo mondo e di cercare pace nelle isole dell’Arcipelago Toscano, dove il mare e la tranquillità forse gli avrebbero ridato la pace. Prima andò a Capraia, poi giunse qui da noi al Cavo, dove trovò un ambiente sereno e accogliente…E proprio allora, dopo alcuni anni, decise di regalare ai cavesi una sua scultura, questa Madonna dei marinai che è qui davanti a noi, bella e dolce, come soltanto lui sapeva fare…Ti piace questa storia, bambina mia…?!-
-Oh, sì, è bella e triste…- rispose Irene, turbata da quel racconto.
6.continua
Maria Gisella Catuogno
Foto:
1. Cavo, febbraio 1990 (foto Rosella Barbetti)
2. Madonna di Zulimo Rossellini prima del restauro
3. Monumento funebre a Ugo Foscolo di Z. Rossellini, Università di Pavia, Cortile delle Camelie
4. Pubblicazione che ricostruisce la storia del monumento funebre destinato a Santa Croce
5. Madonna di Z. Rossellini, nel giardino "delle suore" al Cavo, prima del restauro