È capitato anche a me di essere còlto da una specie di folgorazione scientifica sulla via marcianese tipo “Damasco”, quella della zecca: in questi ultimi giorni, infatti, sono stato abbagliato non da una sola, ma da una serie di vivide luci.
La prima luce è rappresentata dalle ricerche di ‘insigni’ studiosi, che in quanto insigni, cioè “distinti da meriti eccezionali” (cfr. Devoto/Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze, 1980), sono pressoché inconfutabili; se hanno detto che di zecca appianea si tratta, così è, senza tentennamenti.
La seconda luce proviene dalle decisioni, sonoramente unanimi, del Consiglio Comunale di Marciana, il quale annota fra l’altro che “da tempo immemore quell’immobile viene identificato nell’immaginario collettivo dei marcianesi come “la zecca degli Appiani”; come si sa, con l’immaginario collettivo non si può interferire, se non in modo arrogante e provocatorio come ha fatto nel 1840 il Catasto Leopoldino, il quale ha avuto l’ardire di qualificare la zona e la via con il toponimo “La Tomba” anziché “Zecca degli Appiani”.
La terza luce arriva dagli interventi pregevoli e autorevoli di altri studiosi illustri, in verità con esperienze archeologiche alquanto smilze, il cui buon senso porta a concludere che l’ipogeo di Marciana può essere una cosa o il suo contrario, e anche di più.
La quarta luce emana da una sorta di sentenza pro zecca da parte di apprezzati opinionisti/maîtres à penser dal lessico forbito: quando essi si lamentano nei confronti di qualcuno o di qualcosa di fratture alle gonadi (per efficaci sinonimi, da loro usati e preferiti, si veda “Il manuale di Pierino”, edizioni Vaffa, Tre Palle n. 23, 1997), come si fa a non gratificarli di un deferente assenso?
Stante la forza di codeste luci, dapprima mi sono trovato in una profonda crisi di sconforto, ai limiti della depressione, e poi mi sono detto che è venuto il momento di studiare di più e meglio, buttando via la mia precedente convinzione secondo la quale nell’ipogeo marcianese si doveva ravvisare una tomba etrusca gentilizia. Il mio new deal storico-scientifico ha preso le mosse dal sito ufficiale on line del Comune di Marciana dove, alla sezione ‘storia’, ho appreso che “la creazione di una zecca per battere moneta” si deve a Donna Paola Colonna, divenuta moglie di Gherardo Appiano nel 1396. La mia acculturazione è proseguita con la lettura dei documenti elaborati di recente per lo stesso Comune di Marciana dai suoi consulenti, i quali affermano che la zecca “è databile alla fine del XVI secolo”. È vero che fra queste due versioni c’è un po’ di bisticcio cronologico (più o meno 150 anni di differenza), ma evitiamo di spaccare il capello in due: l’importante è che la zecca ci sia stata. Lo dice, perbacco, un certo Zanetti nel 1775, e non importa se la sua testimonianza è abbastanza lontana dagli avvenimenti (due secoli o più), se l’ ubicazione da lui data alla zecca è imprecisa e se la sua credibilità è piuttosto scarsa perché ritenuto un po’ troppo dedito all’esaltazione del Principe. Altrettanto irrilevante è che la zecca di Marciana sia citata solo da Zanetti e da nessun altro, né dagli attenti eruditi elbani del tempo né dai viaggiatori/scrittori del Grand Tour. In modo simile va considerato del tutto marginale il mancato ritrovamento di monete e di qualsiasi traccia di coniazione nello ‘scavo preliminare’ (per inciso: scavo fatto da chi? da un archeologo qualificato come impone la legge?). Addirittura insignificante è, poi, il fatto che nell’Archivio Storico di Marciana non sia stato rinvenuto alcun documento sulla zecca, nonostante che quest’ultima sia stata il frutto di un immane lavoro che, a detta dei nostri maestri/scalpellini del granito, deve essere costato una ‘botta’ e deve aver impegnato per svariati anni maestranze specializzate. A pensarci bene gli Appiano dovevano essere ben tosti: avrebbero potuto edificare in quattro e quattr’otto, e con poca spesa, un intero palazzo da adibire a zecca, e invece hanno voluto dare dimostrazione della loro potenza e della loro magnificenza (roba da far schiumare d’invidia un imperatore…) ordinando di scavare con immense difficoltà, centimetro per centimetro, un grande ipogeo che comportava l’asportazione di circa 200 tonnellate di granito. Allo stato attuale emerge una domanda pertinente: forse che quel notevole ‘caveau’ era destinato a contenere le riserve auree degli Appiano, notoriamente più ricchi di un re? Se l’epoca coincidesse (circostanza da approfondire), si potrebbe pensare al tesoro del Conte di Montecristo. E se tanto mi dà tanto, chissà che razza di tunnel gli Appiano hanno fatto scavare a Piombino, senza dubbio per loro più importante di Marciana anche per quanto riguarda le attività di coniazione.
Le mie nuove fonti, dunque, mi stanno portando sulla strada della corretta ricostruzione storica. Dovrò consultarne altre, ma sono a buon punto… E dovrò anche capacitarmi del fatto che alcuni termini usati da me e da sprovveduti colleghi (per esempio tomba ‘gentilizia’) sono ormai superati dalla ricerca storico-archeologica più recente. È ormai acclarato, infatti, che nel mondo antico le grandi tombe, sotterranee o in elevato, erano costruite ad uso e consumo della classe ‘servile’(!?).
Michelangelo Zecchini