La mattina della domenica di Pasqua era consacrata alla messa di resurrezione con la chiesa piena all’inverosimile. In quei giorni infatti ritornavano i paesani sparsi a lavorare nelle città vicine e gli ospiti abituali dell’estate che al paese erano affezionati e vi facevano una capatina anche in primavera, per aprir casa, scacciare la polvere, il freddo e l’umidità dell’inverno, riprendere i contatti interrotti con le prime rinfrescate settembrine.
Irene insieme agli altri bambini arrivavano trionfanti in chiesa con le uova di cioccolato da benedire mentre i grandi portavano canestrini di uova sode colorate e infiocchettate.
Dopo la funzione religiosa, era tutto uno scambiarsi auguri e saluti. Poi veniva il pranzo con la famiglia riunita e i nonni a capotavola; per l’occasione le donne di casa avevano dato il meglio di sé ai fornelli preparando i piatti della tradizione pasquale elbana: l’agnello arrosto con le erbe aromatiche, la coratella, le animelle, il gran fritto pastellato delle verdure di stagione e infine i dolci. Anche questi erano tipici della Pasqua e mescolavano nel loro impasto la festa della resurrezione con il saluto alla primavera appena destatasi dal lungo sonno dell’inverno.
La nonna nei giorni precedenti aveva badato alla torta pasqualina, le figlie al resto.
-Ma nonna, quanto dobbiamo aspettare perché sia pronta?- la sfiniva Irene che era impaziente di verificare personalmente quanto aveva agito il lievito
-Non devi avere furia, deve lievitare giorni, solo così sarà morbida e spugnosa, perfetta per accompagnarsi ai vini dolci o al latte caldo-
-E poi che ci mettiamo sopra?-
-Sbattiamo un uovo e ci spalmiamo il tuorlo!- spiegava con pazienza certosina la nonna, a cui premeva che tutta la fatica e l’attesa non andassero perse per la fretta della nipote
-Ma dentro ce l’hai messo l’anice?-
-Come no? Ti pare che potevo scordarmelo?-
Irene ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma sapeva che era quello che dava il profumo particolare e inconfondibile alla torta.
Adesso, alla tavola domenicale, il dolce troneggiava al centro, accanto alla crostata di strutto e alle sportelle guarnite di confettini colorati.
-Non ve le finite tutte le sportelle!- si raccomandavano la mamma e la zia –vanno portate domani alla Cappella!-
La Cappella, come le avevano già raccontato in casa, era una bella e antica costruzione sulla sommità di una collina da dove lo sguardo spaziava sui fianchi coperti di macchia mediterranea delle pendici sottostanti, sul paese con i suoi promontori che si allungavano in mare quasi ad abbracciarlo, sul porticciolo minuscolo con le barche all’approdo, sulla distesa immensa del mare che all’orizzonte lambiva il contorno della costa toscana. Era una monumento funebre a forma di faro costruito per volontà dei signori del paese da un architetto famoso. Aveva un cipiglio fiero, misterioso e inquietante per Irene che, quando l’aveva vista la prima volta, inaspettatamente alta, imponente e minacciosa dopo l’ultima curva della strada che vi conduceva, ne aveva avuto paura e s’era stretta alle gonne di sua madre. Ma era molto piccola allora: la paura di anno in anno era passata ma non un certo vago timore.
Il giorno di Pasquetta, la Cappella sembrava molto meno austera del solito: il prato sottostante si riempiva, fin dal primo pomeriggio di voci, canti schiamazzi: famiglie coi bambini al seguiti, vecchi in gamba che si potevano ancora permettere quella lunga passeggiata dal paese, magari col bastone e con un po’ di fiatone, ma soprattutto ragazze e ragazzi eccitati e festanti. Tutti si portavano appresso la merenda da consumare fra i prati e il posto d’onore in quell’occasione spettava alla “sportella”, un dolce tipico, di antichissima origine, che alludeva nella sua forma all’intimità femminile ed era celebrata come simbolo e augurio di fecondità. I giovani se la portavano baldanzosamente al collo, come un amuleto, legata a un nastro colorato, e scherzavano sull’argomento con le ragazze, che quel giorno li lasciavano dire, anch’esse euforiche per la gita fuori porta, il contatto più stretto con i coetanei, la licenziosità dei loro discorsi.
Irene invece era turbata da tutto questo e diventava rossa per loro, si sentiva nuda in quell’allusione esplicita alla sessualità, rifiutava quel dolce che pure profumava di uova, zucchero, limone, chiara d’uovo e confettini.
Il lunedì dell’Angelo chiudeva le festività pasquali ma la bambina non si rammaricava: maggio era alle porte. Quale mese era più bello? Irene lo adorava: per il giardino che si ornava di cespugli fioriti di rose rosse, bianche e gialle; per la pergola di roselline pallide che ombreggiava e profumava i pochi gradini d’ingresso alla terrazza, oltre il cancello in ferro battuto. E poi le ore di luce erano tante, sembrava che il sole non ne volesse sapere di tramontare e si divertisse con i bambini che. prolungavano i giochi fino a tardi, incuranti dei richiami materni, illuminando i visetti già più coloriti, i capelli spettinati, la gioia innocente di esserci, al mondo, senza chiedersi tanti perché, come fanno i grandi.
- Nonna uno di questi giorni portiamo le rose in chiesa? Ce ne abbiamo tante…se tu non puoi, ci vado con Antonella, di pomeriggio…- chiese Irene una mattina di ritorno da scuola, vedendo Giuseppina indaffarata fra i suoi fiori, come un’ape ronzante che passa da una corolla all’altra, badando a non dimenticarne nessuna
- Va bene, aspettiamo qualche altro giorno, che i boccioli siano un po’ meno chiusi…-
E così, il sabato seguente, le due bimbe, con un mazzo di rose, si avviarono verso la parrocchia. Sapevano di doversi rivolgere alla mamma di Don Mario, la signora Chiara, una donnetta smilza, tutta “nervo”, sempre indaffarata tra la casa e la chiesa. Era di modi un po’ bruschi, di solito, ma quella volta accolse gentilmente le due bimbe, rallegrandosi della bellezza del mazzo, contenta d’aver risolto per quella domenica il problema della decorazione dell’altare.
- Venite, andiamo insieme in chiesa-
Quando entrarono, nella luce accecante del primo pomeriggio, quel luogo sembrò a Irene la quintessenza della frescura e della pace. Tutto era pulito, tirato a lucido: candide tovaglie ricoprivano l’altare maggiore e quelli delle cappelle laterali, il silenzio invitava alla preghiera. Le due bimbe posarono il mazzo di fiori accanto alla statua della Madonna, lasciarono la signora Chiara alle sue occupazioni e salutandola uscirono. Le abbracciò il sole di maggio come una promessa di felicità. Correndo e scherzando arrivarono a casa e giocarono in giardino e sulla spiaggia per tutto il pomeriggio.
L’undici fu il giorno della Prima Comunione di Irene, ma anche di Maria Cristina, Ida, Pierpaolo, Enrico, Mirella, Carmelina, Paola, Lido…
Nelle famiglie c’era un grande fermento: si aspettavano i babbi marinai, si ultimavano le spese, si provavano i vestiti dalle sarte, si preparava il rinfresco per amici e parenti. In quell’ultimo mese s’era fatta la spola con Piombino che per gli acquisti restava la meta preferita: raggiungibile in quaranta minuti, allegra, vivace, piena di mercanzie d’ogni genere. Lo shopping poteva durava ore, si mangiava un panino in Piazza Dante, sulle panchine ombreggiate dai platani e si ritornava a casa in serata, col portafogli vuoto e le vesciche ai piedi, carichi di pacchi e di pacchetti.
E venne il gran giorno: Irene si svegliò prestissimo rigirandosi nel letto per ore finché non si alzò la mamma, in punta di piedi per non svegliare il babbo arrivato appena il giorno prima. La baciò, augurandole il buongiorno e le consegnò una busta, allontanandosi. Era un letterina che Irene non avrebbe mai dimenticato: esordiva scusandosi per il ricorso alla forma scritta, ma era l’unico modo per dire, senza commuoversi. Le ricordava la nonna paterna che era scomparsa l’anno prima, donna di grande fede che avrebbe gioito di un giorno come quello, le rammentava i valori su cui improntare la vita d’oggi e di domani: la generosità, la sincerità, la sensibilità
A Irene si velarono gli occhi di lacrime fin dalle prime righe: non era forse una “fontanella”, come dicevano i compagni? Corse in cucina, scalza e in pigiama a abbracciare la mamma. Si capirono così, senza pronunciare una sillaba.
La giornata trascorse nella gioia: il vestito bianco; i suoi tutti belli e eleganti che la coccolavano, Francesco da mangiarsi con gli occhi, tanto era speciale, l’atmosfera calda e accogliente della chiesa; la spiritualità di cui si sentiva intrisa; le foto di circostanza, la confusione festante che la circondava le piacevano un sacco, la facevano sentire a un palmo da terra.
A casa, dopo la cerimonia, nel salotto tirato a lucido, l’aspettava il grandissimo tavolo apparecchiato con la tovaglia bianca damascata, le tazze e i piattini di porcellana finissima, i cucchiaini d’argento e un bricco di cioccolata ancora calda. E sui vassoi, fette di torta per tutti i gusti: alla frutta, al cioccolato, alla ricotta.
-Irene, Irene...- tutti la chiamavano, tutti la volevano
Il pomeriggio, libera dell’abito da Comunione, lo trascorse a giocare coi suoi amici, tra la camerina e il vicinato, su e giù per le scale. Quando arrivò il tramonto e i giochi si sciolsero tra i saluti e gli abbracci, fu consapevole che quella giornata le si sarebbe impressa nella memoria tra i ricordi più belli.
7.continua
Maria Gisella Catuogno