Capita, a volte, di trovarsi per le mani due libri e scoprirli complementari, di quelli che nel sistemare la libreria di casa (andrebbe fatto una volta l’anno, come gli inventari dei negozi) vanno messi assolutamente vicini.
I due libri, che il lettore curioso farebbe bene a leggere uno dopo l’altro, sono entrambi editi da Feltrinelli, pubblicati l’anno scorso: il primo è Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele è di Paola Caridi, l’altro Golda ha dormito qui di Suad Amiry.
Le autrici sono due donne, Paola Caridi, romana, storica e giornalista che ha vissuto per anni al Cairo e a Gerusalemme e ora vive a Sambuca di Sicilia, nel Belice; Suad Amiry, palestinese, nata in Siria, vissuta ad Amman, a Beirut, a Edimburgo, che ora abita a Ramallah, architetto, storica dell’architettura e da qualche anno scrittrice “per caso” (è lei stessa a dirlo).
Un luogo fatto di muri fisici e mentali
Il libro di Paola Caridi nasce (è sempre bello scoprire le scintille e le gestazioni dei libri) “da un suono chiaro, straniante, che irrompe come una sciabolata”, quasi a risvegliarla, sulla scalinata del vescovado di Mazara del Vallo e la riporta a una Gerusalemme che non avrebbe mai immaginato di rimpiangere: la chiamata alla preghiera musulmana, l’Allah-u-akbar dell’imam locale, le fa da sintesi dei due mondi, musulmano e cristiano, di cui la Sicilia è intrisa da secoli. Il rimpianto, il “sapore dolce della nostalgia” le viene dalla percezione che il canto dell’imam, come una volta da noi le campane dei Vespri, ci ricordano “che la vita è tempo, scansione, gesti compiuti, passato che non torna, presente che corre così tanto in fretta”. “Il ritmo è l’eredità che la Città Tre Volte Santa mi ha lasciato, incastrata ormai nella mia carne.” Un libro che parte con queste premesse e con questa scrittura non può che conquistare, nella lettura. L’autrice ci prende per mano e, con una scrittura che usa tutti i sensi e che potrebbe essere la sceneggiatura di un grande documentario, ci presenta una Gerusalemme che nessun pellegrino o turista può cogliere, a partire dalla divisione tra il limbo notturno in cui Gerusalemme riposa e quello diurno che “riporta tutto al codice del conflitto”.
Gerusalemme è crudele perché “non è più una città. E’ un luogo fatto di muri, fisici prima ancora che mentali”, i suoi abitanti (ma anche i suoi turisti in fondo) “devono essere definiti e incasellati”, in un luogo su cui “spesso la religione è stata sovrapposta come una coperta”.
Nella storia moderna della città Paola Caridi vede una cesura nel 1948, quando il mancato accordo sul piano dell’Onu sulla creazione di due Stati, porta all’uso delle armi, con un massacro di almeno cento civili da parte di bande paramilitari sioniste nel villaggio di Deyr Yassin, un mese prima della nascita dello Stato di Israele, a una guerra per le strade e a un accordo tra Israele e Giordania che a novembre spartisce la città con un confine, prima sulla carta poi su una strada, che taglia in due il quartiere di Musrara e spezza il concetto stesso di città moderna: va in fumo il progetto che ha percorso quasi un secolo di esaltare il carattere cosmopolita e universale della città, contraddicendo “urbanità che era invece mescolanza”. Nascono la Gerusalemme ovest annessa allo Stato di Israele e la Gerusalemme est in cui vivono i palestinesi.
Una città dal cuore spaccato, fatta solo di Noi e Loro
L’autrice si serve, per illustrare l’isola-fortezza di Gerusalemme, di una precisa definizione usata da Alessandro Petti per distinguere arcipelago ed enclave, che riprendo ad uso di chi vive su un’isola e spesso sente, anche sulla pelle e nell’animo, l’antinomia tra questi due elementi: “L’arcipelago può accogliere al proprio interno flussi legali e illegali, le enclave non hanno alcun tipo di collegamento, sono isolate da un potere […] Tra l’essere rinchiusi e il rinchiudersi vi è una differenza sostanziale: è ciò che distingue un campo da una residenza di lusso.“ In questa chiave Paola Caridi descrive una città “dal cuore spaccato”, con famiglie divise da Muri, che proseguono la storia di una città sempre arroccata e sulla difensiva, ma con una nuova moltiplicazione di divisioni che somigliano a quadri di Escher. Tutto è vissuto dagli abitanti nella forma di un Noi e un Loro contrapposti. Ogni comunità vive separata, ignorando e temendo l’altra, a partire da quando si è bambini. Gli unici spazi condivisi tra tutti sono i 190 metri di strada per chi deve fare qualcosa negli uffici del Comune, pagare le tasse o fare documenti, e il grande centro commerciale Mega, il non-luogo in cui si possono vedere, tutti insieme, gli abitanti della città (ognuno impegnato, però, a comprare per fatti suoi). A sua volta Gerusalemme è un corpo separato da tutto ciò che la circonda.
Dal ’48 in poi Gerusalemme è cresciuta a dismisura, con una popolazione quasi raddoppiata dal 1983 a oggi e la scelta urbanistica dello Stato israeliano e delle amministrazioni locali di costruire creando un mosaico tale per cui nella parte palestinese si insediano come in un Risiko tante piccole aree israeliane a impedire qualsiasi futura divisione politica.
In piena coerenza con questa panoramica e suggestiva visione storico-geografica l’autrice chiude ipotizzando una soluzione che definisce “irrealistica, utopistica e ingenua”, ma che ritiene l’unica realmente pacifica e rispettosa della città: quella di una città aperta, unica e condivisa, in cui vi sia totale libertà di movimento con un governo eletto da chi vi risiede. Questa città non può essere né divisa né sacralizzata, “perché è fatta della carne dei suoi abitanti”.
Storie di vita quotidiana dalla Palestina
E proprio qui, dalla carne degli abitanti, e dalla loro anima, dall’esperienza lacerante vissuta da alcuni di loro, parte Suad Amiry nel suo Golda abita qui. “Gerusalemme, - scrive - un pezzo del mio cuore è tuo solo perché a te appartiene una grossa parte della mia banale vita di tutti i giorni.”
Suad Amiry ha cominciato a scrivere a cinquant’anni a causa di un evento personale straordinario: quando le truppe israeliane occupano Ramallah lei è costretta a ospitare in casa sua la suocera, subendo così, come ama raccontare, “una doppia occupazione, quella della mia terra da parte degli israeliani e quella di casa mia da parte di mia suocera”. Il diario di quel periodo, Sharon e mia suocera, da un lato le fa da utile terapia, dall’altro rivela, a se stessa e agli altri, la capacità di scrivere con leggerezza e humour della vita quotidiana dei palestinesi, che conosciamo davvero poco. La mia intervista al festivaletteratura di Mantova del 2005, il cui video è ora su youtube, parte da lì. Suad non si definisce scrittrice, ma hakawati, la parola che in arabo significa “raccontatore di storie”, storyteller.
Quest’ultimo libro, seppure caratterizzato dalla stessa scrittura leggera e dalla stessa attenzione alla quotidianità, racconta storie personali drammatiche. Situazioni e vicende che Paola Caridi presenta in breve nella narrazione della sua Gerusalemme diventano qui storie di famiglia toccanti e incredibili. Ed è questo che rende complementari i due libri.
Tutto parte da quel 1948 che per gli israeliani è la Guerra di indipendenza e per i palestinesi la Nakba, la “catastrofe”. “Mentre per un popolo la diaspora finiva – è la sua sintesi efficace – per l’altro cominciava.” Il punto di vista che Suad Amiry ci offre è quello degli effetti di questo periodo sulla vita di persone a lei vicine, di racconti che lei stessa ha faticato a raccogliere perché, dice, i palestinesi parlano sempre delle sofferenze collettive, ma persino in famiglia tengono per sé le sofferenze personali. Le storie sono quelle di chi, nel 1948, a causa della divisione di Gerusalemme e dell’occupazione israeliana della parte est, ha perso la possibilità di continuare ad abitare, di usare e poi persino di guardare da lontano la propria casa.
“Mi è stato detto: ‘Casa è dove sono’. Ce la metto tutta e non sempre ce la faccio” avverte l’autrice nella premessa-dedica del libro.
La ferita della Nakba è ancora aperta, con una sostanziale differenza che la Amiry individua nel rapporto di palestinesi e israeliani con la storia e la memoria: “mentre i palestinesi ce la mettono tutta a dimenticare quando dovrebbero ricordare, gli israeliani ce la mettono tutta a ricordare quando dovrebbero dimenticare”.
La casa di Andoni, luce della sua vita
La storia che racchiude in sé tutte le contraddizioni e i paradossi delle case passate da un proprietario all’altro è quella di Andoni Baramki, nato, come ricorda la pietra tombale di un cimitero cristiano ortodosso, “a Gerusalemme (gennaio 1894), morto a Ramallah (settembre 1972) a 14 km. dall’amata”.
Andoni aveva “un sorriso sottile, elusivo, misterioso, astratto, enigmatico”. Era un architetto geniale che aveva realizzato costruzioni importanti a Gerusalemme e dintorni dopo un terremoto catastrofico nel 1927: una chiesa rumena, un convento, case private e alberghi. La sua attività diede nome a uno stile, lo “stile Baramki”, caratterizzato dall’uso di pietra bianca e pietra rosa. Nel quartiere di Musrara, tra il 1929 e il 1932, costruì per sé la villa che sognava, e che chiamava “la luce della mia vita”. Nel ’48, per gli scontri tra arabi ed ebrei fu costretto con la famiglia a lasciare la casa, riuscendo ad afferrare solo una torta di arance e un coltello per tagliarla. Purtroppo la sua casa restava, per meno di un chilometro, al di là della strada che separava le due Gerusalemme, nella zona est, quella israeliana. Ogni settimana, da quel giorno, andò a guardare la sua creatura da un’altra che le stava di fronte. Fino alla Guerra dei sei giorni, nel ’67, quando gli tolsero anche la casa di fronte e cominciò a reagire alle avversità con quel perenne sorriso enigmatico. Un anno dopo, la positività e l’ottimismo di Andoni sembrarono premiati quando il tribunale sfrattò dalla “sua” casa gli occupanti abusivi. Ma la sua richiesta di tornarci, che sembrerebbe logica, fu respinta, in nome della paradossale Absentee law: absentee, assenti, erano i palestinesi che non potendo risiedere nella parte est avevano abbandonato le loro case. Ma poiché erano “proprietari non residenti”, avevano perso, per questa legge israeliana, la proprietà della loro casa. “Signore, – dice Andoni alla Corte – i palestinesi sono ‘assenti’ solo perché voi non ci permettete di essere presenti. E chi di noi è presente è considerato assente. Non potremo mai vincere.” E questo valeva, come per lui, per centinaia di migliaia di persone, tra cui il proprietario della villa in cui andò ad abitare il primo ministro israeliano degli anni ’70 Golda Meir (da qui il titolo del libro). Di fronte al diniego della corte di tornare nella sua casa, racconta Suad Amiry, Andoni cominciò a ridere senza freno, “finché la risata si spense/poi ci fu silenzio/un silenzio totale/un’immobilità totale/un silenzio di tomba”. L’amata che era a 14 chilometri da lui era la casa che aveva sempre considerato “luce della sua vita”.
Non occorre riassumere qui le altre storie, che lascio scoprire a chi vorrà leggere questo libro. Mi basta citare gli ultimi versi della splendida poesia di Mahmoud Darwish con cui Suad Amiry chiude i suoi racconti: “Devo mettere al bando quella parte del mio cervello/che ama la ragione, la logica e la giustizia/Palestina/ci lascerai mai liberi?”
Paola Caridi, Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele, Feltrinelli, 2013, pp. 204, euro 16.
Suad Amiry, Golda ha dormito qui, trad. Maria Nadotti, Feltrinelli, 2013, pp. 224, euro 16
Luciano Minerva http://www.elbadipaul.it/