Nei suoi ultimi anni di vita Renato Cioni era un omone buono che, per un periodo, è stato coinvolto in importanti progetti di educazione musicale.
Ha messo il suo bagaglio artistico a disposizione della comunità, la sua comunità, portando il suo vangelo nelle scuole (medie) di Portoferraio.
Insomma Renato Cioni, pur andando per la settantina, non aveva ancora finito di dare e si reinventò, con l’entusiasmo di un bambino, nel ruolo di tutor e, nello specifico, una volta condusse gli alunni ad una impegnativa e gratificante recita di fine anno: “La vedova allegra”.
Poi si sa, da cosa nasce cosa, a quell’impulso sopraggiunse l’intraprendenza di qualche adulto e fu così fondata l’associazione “Giovani in scena” rivelatasi al dunque, alla resa dei conti, una irripetibile nidiata di talenti che incantava nelle magiche estati elbane a cavallo del millennio.
C’è stato però un tempo in cui Renato Cioni dava, eccome se dava, in un modo che di più non si può, in quanto tenore di fama internazionale.
C’è stato un tempo in cui la sua ugola faceva tremare le pareti dei teatri più prestigiosi del mondo.
C’è stato un tempo in cui i teatri stessi “venivano giù”, dalle ovazioni che riceveva.
Una su tutte: insieme ad un cast stellare dopo una leggendaria rappresentazione della “Tosca” (Covent Garden, Londra) ritenuta ancora oggi, da molti spassionati intenditori, la più bella di sempre.
C’è stato un tempo in cui era davvero in cima, di gradini da scalare non ne aveva proprio più.
A quei livelli, se non eri all’altezza, il palcoscenico con la Callas non lo condividevi.
C’è stato un tempo in cui un giovane modenese di belle speranze, che cantava nel coro, entrò nel suo camerino soltanto per conoscerlo, per stringergli la mano. Si chiamava Luciano Pavarotti.
C’è stato un tempo in cui alcuni turisti, appena sbarcati dalla nave, domandavano sul porto con naturalezza: “dov’è la casa di Renato Cioni?”.
Lui, portoferraiese vero, nato in via della Campana (tra il Forte Stella e il Grigolo per chi non lo sapesse) e cresciuto nelle vie e viuzze, piazze e piazzette del centro storico.
Lui, catapultato dalle chiese del centro (Duomo, dei bianchi e dei neri: lo invitavano ai matrimoni per cantare “L’Ave Maria”) e bettole (quelle non si contano, esordì proprio in quell’ambiente con “’O sole mio” nel periodo bellico) alla ribalta mondiale.
Lui, sesto di nove figli di una famiglia di pescatori, a esportare il nome del suo paese a spasso per l’Italia, per Europa, in America, ovunque.Lui, che dietro le quinte e nei salotti borghesi quelle origini di scoglio non le ha mai rinnegate, anzi, al contrario, le ha sempre ricordate con orgoglio e difese a spada tratta, quando era necessario.
Ce n’era abbastanza per commemorarlo come si deve, ad un anno dalla sua scomparsa.
Come lui nessuno mai, all’apice del successo uno sconosciuto non era davvero.
Non lo è tuttora e con ogni probabilità, a differenza della stragrande maggioranza dei comuni mortali, non lo sarà mai.
C’è un tempo, oggi, in cui gli viene dedicato il teatro dei Vigilanti, l’unico che c’è a Portoferraio.
La conquista dell’ennesimo teatro – quello che gli mancava, quello di casa sua (la distanza, in linea d’aria, è di qualche decina di metri) – è avvenuta in modo inconsueto, senza alzare la benché minima voce, ma per sempre: da qui in avanti quel teatro porterà anche il suo nome “Teatro dei Vigilanti Renato Cioni”.
Ed ora, da lassù, il grande tenore non si vanta né rimprovera qualcuno.
Per concludere, un aneddoto datato 1965.
Renato Cioni venne scritturato dalla Sutherland (altro mostro sacro la quale, semplicemente, stravedeva per lui) per una lunga e faraonica tournée oltre oceano (Stati Uniti e Australia), ma a pochi giorni dalla partenza disdette, stracciò il contratto.
Nell’ambiente il motivo di quella rinuncia rimase avvolto nel mistero, nessuno sapeva dare un senso ad una così folle decisione.
Lo fece per motivi di cuore, sentimentali si intende, ma vallo a spiegare.
All’ultimo tuffo fu reclutato un giovane modenese, quello di prima, nel frattempo divenuto tenore, promettente ed affamato, ma ancora digiuno di continenti che non fossero il suo.
Montò lui su quell’aereo al posto del Cioni e da lì spiccò il volo, in tutti i sensi: quella tournée fu un trionfo che gli spalancò qualsiasi porta.
Ovviamente lo stesso Pavarotti, nelle sue memorie, non manca di menzionare questo episodio.
Uno degli italiani più illustri del ventesimo secolo era destinato lo stesso ad esplodere prima o poi, ma, se soltanto il ragazzo di via della Campana avesse preso quell’aereo, non quella volta.
A pensarci bene però, non va biasimato Renato Cioni, perché ascoltare il cuore anziché la ragione è stramaledettamente tipico della gente di scoglio.
Che ci vuoi fare, è un’indole particolare: non tutti ce l’hanno magari, ma in tanti sì.
Ieri sera alla cerimonia, in quel teatro, l’atmosfera che si respirava parlava da sola e diceva tutto.
Tra le altre cose, un inedito e struggente brano dedicatogli dalla figlia; le lettere con cui Andrea Bocelli e Mirella Freni (sì, loro) gli rendono il giusto tributo e idealmente partecipano alla serata; infine la coincidenza che quei favolosi ragazzi esibitisi – rigorosamente nostrani, riuniti per la circostanza – fossero tutti ex componenti di quella stessa, eccezionale nidiata di talenti….. artisticamente si sono svezzati lì, l’uno con l’altro.
Questi ragazzi, ormai cresciuti ed affermatisi (ognuno per la sua strada) ben oltre il canale, gli hanno reso un omaggio coi fiocchi.
Ed era netta la sensazione che, come forma di tacita approvazione, ad accompagnarne le movenze sul palcoscenico ci fosse una placida mano, la mano grande di un omone buono.
E poi, soprattutto, al termine della proiezione di alcuni video che lo vedevano protagonista, il grande tenore Renato Cioni si è beccato un ultimo applauso dalla comunità, la sua comunità.
Un applauso non di circostanza ma sincero, spontaneo.
Al cuore non si comanda.
Michele Melis