Paolo Guidotti non espone, ma si espone. E’ quanto ci sentiamo di affermare percorrendo la sua terza personale a Portoferraio che, curata da Alice Betti, ha come prestigiosa cornice la Sala della Gran Guardia. “Da dove vedo un brano di dàrsena con uno spicchio di cielo, che basta alla mia giornata”, dice l’artista: una provocazione, in un’epoca come la nostra, di galoppante e nevrotica superfetazione dei bisogni artificiali e dei feticci; come una provocazione è il suo mettere nelle mani del pubblico il valore commerciale delle opere che propone. Sì, si vuol proprio dire che esse chiedono di essere valutate e prezzate da chi le passa in rassegna, riportando l’arte, in primo luogo, al suo significato eversivo di momento svincolato da ogni logica di mercato e, in secondo luogo, alla sua suprema funzione di responsabilizzazione dell’individuo nei confronti delle proprie emozioni e del proprio universo estetico.
La mostra segna un cammino non sempre lineare. Ci sono opere in cui l’esigenza della ricerca si fa prepotente e persino imprudente e ne vedi il segno nelle rose di schegge di maioliche che vorrebbero mettere la materia al servizio della luce, e altre, invece, dove si è preso un passo e lo si mantiene con una cadenza ammirevole, combinando la varietà delle cose che, nell’assorto promener, giungono all’occhio e al cuore: elementi architettonici, colori, sentori di albe, di ombre, frammenti di storia urbana, avvertiti trasalimenti. E tutto torna, tutto è al proprio posto, in questo orizzonte ideale, in cui appaiono e scompaiono in un gioco che non finisce di incuriosire e di affascinare, sovrapposti, affiancati, separati da una velatura spessa come un muro o da un muro diafano come una velatura, l’accenno di un profilo, il grumo di vernice, il frammento di legno o di tela, il ritaglio di giornale, il baffo di colla. Allora vedi un’anima che, se è partita, come è partita, da Burri o da Fautrier ovvero dal riconoscimento dell’apparenza come un dato scisso dalla sostanza, dall’indagine sulle qualità espressive della materia, canone dell’Informale, intende di tempo in tempo recuperare le proprie esclamazioni di meraviglia, per approdare ad esclusivi paesaggi interiori, per allusioni, se vuoi, tentati e ritentati fino a diventare proposta autorevole e di pieno senso.
Paolo Guidotti guarda il suo brano di dàrsena e il suo spicchio di cielo, mentre ascolta De André, per non dimenticarsi di essere ligure. Ma ormai, specialmente dove rughe, concrezioni, croste, terre costituiscono il filo del racconto, nei loro peculiari cromatismi fatti di sottintese ossidazioni e di impenetrabili opacità, è l’antica Tuscia degli ipogei, assimilata per osmosi, a rappresentare la grammatica cui si conforma: di ciò siamo certi che egli acquisterà una sempre maggiore consapevolezza nel respiro della propria ulteriore maturazione.
Gianfranco Vanagolli