Leggo con piacere sulla stampa locale che una “Notte dell’archeologia” quest’anno è dedicata alla Villa Romana di Capo Castello, definita giustamente “ un monumento nascosto”. Nell’auspicio che i resti di questa meravigliosa villa marittima, la seconda per importanza dopo quella delle Grotte, possano un giorno risorgere dal loro oblio e siano fruibili dal pubblico, propongo alcuni passi sull’argomento contenuti ne “Il mio Cavo tra immagini e memoria” (2004/ristampa 2010)
Scrive Michelangelo Zecchini ne “L’archeologia dell’Arcipelago Toscano”, Ed. Pacini., 1971 “Oggi, purtroppo, di quell’edificio che da una posizione panoramica invidiabile dominava il mare settentrionale dell’isola, non è possibile vedere un gran che: rimangono tracce di qualche muro a opus reticulatum, una tecnica edilizia che comportava una notevole consistenza interna e dava esternamente al muro un aspetto disegnativi a maglie di rete. Le misure della villa erano di 88 m. in direzione est-ovest e di 44 m. in direzione nord-sud.”
Della Villa romana di Capo Castello si sono interessati storici ed archeologi, tra cui, nel corso dell’Ottocento, Vincenzo Mellini , che le ha dedicato uno studio ampio e particolareggiato nelle sue “Memorie storiche dell’Isola d’Elba”:
“Parecchi ruderi giganteschi di antichissimi edifizi, sorti o negli ultimi tempi della repubblica o nei primi dell’impero, rimangono all’Elba a provare in qual pregio i patrizi romani tenessero la nostra isola, da indurli a profondervi ingenti somme in grandiose costruzioni: attrattivi dalla mitezza del clima, dalla salubrità dell’aria e dalla sua postura d’isolamento e nel tempo dalla prossimità del continente, che, consentendo ad essi ozi beati, scevri dalla noia cittadina, permetteva loro di tenere dietro agli avvenimenti che si maturavano e svolgevano nella capitale del mondo.
In questi ruderi primeggiano quelli del Cavo (di Capo Castello) sul Canale di Piombino e quelli delle Grotte nel golfo di Portoferraio”.
Mellini ipotizza una “magnifica”, “grandiosa” villa “della quale i fabbricati di Capo di Mattea e quelli di Colle del Lentisco non erano che necessarie appendici”.
L’ampio edificio, circondato su tre lati da giardini con aiuole di fiori, bordure di vario tipo, sempreverdi, statue e fontane, doveva essere composto dalle parti tipiche della villa romana, si articolava probabilmente su due piani e possedeva “pavimenti marmorei di forme ricche e variate”, spesso a mosaico, mentre le pareti erano “riccamente decorate”. Giorgio Monaco precisa comunque che è enfatico parlare di “ruderi giganteschi”, perché le proporzioni della villa di Capo Castello, “in una magnifica zona panoramica e salubre” dovevano essere “un po’ più del normale” ma senz’altro inferiori a quelle della villa delle Grotte, della quale comunque condivideva la pianta, tutta ad angoli retti, l’uso prevalente di opus reticulatum e di mosaici.
Ai resti dell’importante edificio si è dedicato anche Gianfranco Vanagolli in “Note archeologiche. La Villa Romana di Capo Castello di Cavo”, pubblicate nella “Piaggia” nei primi anni ’90, che compendia i risultati di una campagna di rilievi, che ha portato all’individuazione “un vasto sistema di terrazzamenti digradante dall’apice del promontorio nelle quattro direzione nord, sud, est, ovest. Lavori di pulizia, tesi a porre in evidenza alcune strutture di particolare interesse” hanno permesso “la scoperta di cisterne, mosaici, scale, resti di intonaci”. Lo storico sente il bisogno di aggiungere:
“Non posso concludere senza lamentare che un monumento di singolare interesse, certo tra i maggiori dell’età romana nell’arcipelago, sia stato condannato ad un progressivo degrado che ne ha compromesso in larga parte la leggibilità. Osservata fin dal XVIII secolo, studiata da Vincendo Mellini nell’Ottocento, esaminata più recentemente da Giorgio Monaco, la Villa di Capo Castello non ha però cessato di essere di volta in volta cava di pietre, terreno privilegiato di cercatori di tesori, palestra di vandali, zona franca per noncuranti costruttori. La speranza di una sua valorizzazione attraverso uno scavo, sia pure di ridottissima entità, tante volte richiesto, mi ha praticamente abbandonato. Prevedo con dolore che nell’arco di pochi decenni della bella domus resterà solo il ricordo”.
Nelle sue “Memorie”, Vincenzo Mellini, oltre che della villa di Capo Castello, della quale scrive che “sventuratamente tutti i muri esterni ed interni sono stati distrutti più dalla rabbia e dall’avidità degli uomini che dall’azione degli elementi”, si interessa anche dei resti della costruzione di Capo Mattea piccola sporgenza a sud di Capo Castello, dove “grandeggiava un edifizio dello stesso stile, dello stesso orientamento e della stessa struttura muraria, ma di diversa distribuzione che tutto porta a ritenere che fosse una appendice di essa. Si componeva di tre membri di fabbricato, uno centrale e due laterali, “quello centrale era forse una casa colonica e la dimora dei servi addetti alle navi del padrone, mentre i rimanenti erano probabilmente ad uso, l’uno del fattore, l’altro del navarco […] Nel farvi degli scavi, o per piantarvi vigne o per ricercarvi tesori, vi si rinvennero[…] parecchie monete della prima epoca imperiale […] un sepolcreto […]tre grossi blocchi di marmo”. I muri di questo edificio, con il tempo, sono stati distrutti o ricoperti dalle attuali costruzioni moderne.
Se dalla costa e dai suoi “capi”, si passa sul Colle del Lentisco, troviamo altri interessanti ruderi legati alle costruzioni di cui si è precedentemente parlato.
Qui si trovava infatti la cisterna che assicurava il rifornimento d’acqua agli edifici di Capo di Mattea e Capo Castello. Quest’acqua proveniva da varie fonti: Vignola, Chiusa e Gualdo. Il fabbricato è stato minuziosamente osservato dal Mellini, che ce lo descrive. Alto sul livello del mare 60 metri, era formato da tre stanzoni coperti da volte e comunicanti tra di loro, terminanti nella parte superiore “con una spianata a guisa di terrazza (solarium). Il piccolo fabbricato che sorgeva sul solarium potrebbe essere stato un tempietto con pronao formato da sei colonne di pietra calcarea e di “fattura rusticana”, destinato al culto delle divinità protettrici delle acque e delle sorgenti come le Ninfe e le Driadi o divinità invocate per la salute o la fecondità.
A proposito delle colonne, Mellini ipotizza che esse siano state successivamente utilizzate per la chiesetta di San Bennato, quando il cristianesimo prese il sopravvento sul paganesimo.
Maria Gisella Catuogno