Un vero dilemma che attanaglia chiunque oggi si appresti a parlare di cibo: cuochi, gastronomi, chef stellati, food blogger, appassionati di cucina.... l’essere o il non essere, la tradizione o l’innovazione? Come se, ancor prima di esprimere un pensiero qualunque, chiunque lo volesse fare, fosse obbligato, o si sentisse obbligato, a riconoscersi o a farsi riconoscere in una di questi due modelli. Per qualcuno un vero e proprio labirinto nel quale è facile perdersi tra pensieri, parole e comportamenti. Ed è proprio l’interpretazione di questi due concetti, di classificazione così apparentemente semplice, che sembra non mettere d’accordo i più.
In termini culinari c’è chi crede che per Tradizione, si debba intendere un vecchio modo di cucinare da dimenticare, che ha a che fare con tecniche obsolete, tutto stracotto, sale a gogò, grasso che cola, un gruppo che definirei “Gli Schifati”. D’altro canto c’è poi chi la intende come la cucina dei nostri nonni, caratterizzata spesso dai contesti di povertà in cui ne prendeva la forma, questi li definirei “I Nostalgici”… e tra questi ancora, coloro che a tutti i costi insistono nel tentativo di replicare appunto la cucina dei nonni in nome di una materia prima genuina, che non esiste quasi più, ed io li associo ai “Mistici” infine quelli che rifiutano categoricamente ogni tipo di progresso, che non riconoscono la globalizzazione, gli “Inconsapevoli”.
Ma poi c’è l’Innovazione, l’altro campo minato, che fa discutere, fa riflettere. A questa sfera possono appartenere tutti quelli che in qualche modo hanno ormai intuito che non ci si può più alimentare come si faceva un tempo, che classifico come “Gli Illuminati”. Ma anche chi in posizione estrema si avvicina alle cucine dei ristoranti trasformandoli in astronavi asettiche dove il cibo sembra essere elemento di secondaria importanza mentre a farla da padrone imperversano attrezzature megagalattiche e il profumo del cibo è solo tra i ricordi di chi ancora ce li ha, o si è smarrito tra la plastica e dove avere una laurea in Ingegneria è di sicuro più utile che avere un diploma conseguito alla Scuola Alberghiera. Questi li definirei “Kamikaze”.
E così via, di questo passo si potrebbe proseguire lungamente individuando tantissimi altri gruppi e anche infiniti sottogruppi di pensiero.
Ma cos’è che veramente conta e diventa elemento fondamentale e portante di questa disquisizione?
Io credo che sia la moltitudine di idee che contribuisce ad alimentare creatività, questo incessante pensare, discutere, rappresentare, confrontarsi, tutto fa si che il cibo diventi cultura, perché il gusto è un prodotto culturale e sociale e fa parte del patrimonio culturale delle società umane.
Un modo di cucinare anziché un altro, così come il cibo, non è buono o cattivo in assoluto, solo qualcuno ci ha insegnato a riconoscerlo come tale. L’organo del gusto è il cervello attraverso il quale si imparano e si trasmettono criteri di valutazione. Proprio per questo i criteri sono variabili nello spazio e nel tempo e ciò che in una determinata epoca può essere giudicato positivamente, in un’altra potrà essere valutato diversamente.
Ai posteri l’ardua sentenza.