Gli astronomi dicono che ieri notte, alle 00:34, ha avuto luogo il solstizio d’estate. Avremo, così, il giorno più lungo dell’anno. Per i moderni il solstizio è semplicemente l’inizio dell’estate. Per la mentalità antica, complessa, e comunque molto differente dalla nostra, il solstizio estivo segna, piuttosto, il momento in cui le giornate, che fino ad oggi si sono positivamente allungate, cominciano a decrescere. Per loro era più positivo il solstizio d’inverno, inizio della riscossa del Sole contro le tenebre, che non quello estivo, che segnava l’inizio della fine della fase favorevole ai cicli vegetativi. L’evento è tanto saldamente scolpito nelle religioni di tutti i luoghi e di tutti i tempi da essere celebrato anche dai cristiani, con la festa di San Giovanni Battista, il 24 giugno, quasi in opposizione all’altro solstizio e all’altro Giovanni (Evangelista), venerato il 27 dicembre.
Molte religioni canonizzate si sono trovate, spesso con grandi imbarazzi, nella necessità di normare (e anche banalizzare) la visione antica delle cose, spesso ambigua (ambigua nel senso letterale del termine: ogni cosa può avere due o più punti di osservazione). Gli elementi polarizzatori del solstizio estivo sono il fuoco (come per il solstizio invernale) e l’acqua (non a caso il cristianesimo rievoca la figura del Battista). Il fuoco (il Sole e i falò) si coniuga con l’acqua (rugiada e costellazione del Cancro, legata alle acque e alla luna).
Queste fasi di passaggio alludono a transizioni drammatiche. I cicli delle antichissime divinità femminili legate, per motivi diversi, alla Luna, alla fertilità e alla riproduzione, si interrompono per lasciare spazio alla grande divinità maschile indoeuropea: Sole-Zeus-Iuppiter-Giove ma anche Giano-Marte, divinità preposte alle porte, ai passaggi, ai cambiamenti repentini.
Questa festa prevede, come per il solstizio invernale, l’accensione di falò (alle Grotte non potrete farlo, è vietato).
Ma torniamo alle nostre affascinanti divinità.
Il calendario romano prevede, dal 7 al 15 giugno, la celebrazione di Vesta, protettrice del fuoco sacro di Roma e di tutti i focolari domestici, aprendo le porte del suo tempio e compiendo riti di sacrificio e di purificazione. Nel cuore di questa settimana, esattamente l’11 giugno, cadeva la celebrazione di Mater Matuta, dea dell’Aurora e del Mattino, protettrice della nascita di uomini e cose (i Romani erano ossessionati dai concetti di nascita e di parto): dea antichissima, il culto della quale risale a Romolo, con una forte valenza politica, cara alla comunità plebea. Il culto riguardava esclusivamente donne vergini o coniugatesi una sola volta, che esprimevano la loro devozione deponendo una focaccia molto semplice sull’altare della dea.
La serie delle divinità femminili connesse con la fertilità, con il parto e con gli inizi si interrompe bruscamente, fra 13 e 15 giugno, con l’irruzione del misterioso Iuppiter Invictus, il Giove che incentiva la vittoria e non ammette che si possa essere sconfitti.
Anche in occasione del solstizio invernale avveniva qualcosa di simile eppure diverso. Fra il 17 e il 23 dicembre, nei giorni più brevi e oscuri dell’anno le diverse divinità maschili del sottosuolo (Saturno, Plutone, Dis Pater) uscivano dall’inferno e vagavano sulla terra. Nella mentalità antica, ambigua per definizione e per noi quasi incomprensibile, queste divinità tutelavano da un lato le anime dei defunti, dall’altro le campagne e i raccolti. Per evitare che le loro cupe processioni danneggiassero il ciclo della fertilità, interrompendo il periodo del riposo invernale del terreno, si offrivano loro doni e feste per favorire il loro ritorno nell'aldilà e il loro ricollocarsi nel ciclo stagionale. Il loro avvento sulla terra interrompeva una successione di ritualità femminili: Angerona (21 dicembre, divinità del silenzio e degli amori segreti), Tacita Muta/Acca Larentia (23 dicembre). Ma sul solstizio d’inverno vi ho già deliziato: http://www.elbareport.it/arte-cultura/item/13592-solstizio-d%E2%80%99inverno-festivit%C3%A0-e-quanto-molto-ci-resta-dei-romani.
Al 24-25 dicembre i Romani celebravano il Dies Natalis Solis Invicti, "Giorno di nascita del Sole Invitto", festività che andò a innestarsi su un culto solare antichissimo, quello di Sol Indiges. Il giorno di Natale sembra anche essere quello in cui le divinità femminili della fertilità di un remotissimo passato, silenti o tacitate, cedono il passo al ritorno di Zeus-Iuppiter-Giove, la grande divinità maschile indoeuropea del sole, del fulmine, del fuoco e della quercia (da cui deriva l’usanza di accendere un grande ceppo di legno di quercia nel camino o di bruciare grandi cataste di legna per festeggiare il Natale cristiano e la rinascita del sole). Passati questi giorni al maschile, comincia l’anno nuovo e tornano le antiche divinità femminili (di cui la nostra Befana è un po’ erede).
Dopo Iuppiter Invictus, arrivava Summanus, il 20 giugno, una divinità ambigua e che incute terrore. Che Summanus sia una divinità sommitale non c’è dubbio, lo dice il suo stesso nome. Per questo motivo, può, in qualche misura, essere ricollegato a Giove, tipica divinità delle cime dei monti, da dove amava scagliare fulmini terribili. Ma quello che per noi è chiaro, in maniera univoca, diventa improvvisamente ambiguo per gli antichi. Alcuni commentatori latini, anche loro un po’ perplessi, dicono che Summano lancia i fulmini di notte e dal sottosuolo, in opposizione a Giove, che li scaglierebbe di giorno e dall’alto. Summano rappresenterebbe dunque il rivale infernale di Giove e sarebbe uno stretto parente delle divinità infere che precedono il solstizio d’inverno. E’ interessante notare come i luoghi di culto di Summano si localizzino spesso in coincidenza dei fenomeni di vulcanismo residuo (monte Amiata, Monsummano Terme, territori di Verona e di Vicenza, Brianza), identificati dagli antichi con i fulmini provenienti dal basso. Altri autori si chiedevano se il nome di Summanus non rinviasse ad una entità che si trovava “sub Manes”, quindi sotto gli spiriti dei defunti.
Due settimane dopo, fra 7 e 9 luglio, si svolgevano le feste in onore di Giunone Caprotina. Solo alle donne era concesso prendere parte ai riti, che culminavano nel sacrificio di alcune capre (animali che Giunone detestava) sotto alberi di fico. L’estate, a quel punto, era nel suo pieno fulgore e i frutti maturavano a velocità impressionante. Fra questi i fichi. La parola greca sykon indica, oltre che il frutto del fico, anche gli organi sessuali, sia maschili sia femminili.
Fin qui, nulla di particolarmente originale. Ma è interessante il fatto che, ormai agli albori del Medioevo, Isidoro di Siviglia (un sant’uomo) pensasse che ficus discendesse da fecunditas.
Il cerchio si chiude così: il fico, la fica, la fertilità, la fecondità, la procreazione. Cessata l’intrusione maschile, l’elemento femminile reintesse con forza la trama del mondo. Ma per ora fermiamoci qui, alla Villa romana delle Grotte, e aspettiamo il tramonto di stasera.
Franco Cambi