Nel 1858, alla vigilia del’insediamento del Governo Provvisorio Toscano, finito di fatto il Granducato lorenese, l’Elba possedeva una flotta di 216 bastimenti mercantili e i ruoli della sua gente di mare di prima categoria contavano 3.585 unità. I comandanti delle diverse classi erano 517. Accanto al personale navigante operava un gran numero di armatori, talora di rilievo, spedizionieri, costruttori navali, maestri d’ascia, calafati, velai, funai. Quando si consideri che la popolazione dell’isola superava appena i 20.000 abitanti, apparirà chiaro che un’altissima porzione di essa viveva di attività legate al mare.
Due erano i centri dove la marineria era tanto sviluppata da mettere in ombra qualsiasi altra espressione socio-economico-culturale, la Marina di Rio e la Marina di Marciana. Vere e proprie comunità di destino in senso antropologico, le due Marine erano nate per sdoppiamento dai rispettivi castelli nel Settecento, sviluppando con decisione una già avviata, ma modesta, esperienza di traffici, che effettuavano di norma nell’ambito del Mediterraneo occidentale, esportando soprattutto vino e minerale di ferro e importando derrate alimentari e merce varia.
Il naviglio più diffuso, non di rado costruito in loco (si ha notizia di attività cantieristiche alla Marina di Marciana a partire dal Seicento), era costituito prevalentemente da sciabecchi, liuti, pinchi, bovi, tartane, feluche, gozzi, gondole. Si trattava di legni a uno o più alberi, armati con vele latine. Quelli di maggiore stazza appartenevano all’armamento riese, volto al trasporto del minerale di ferro almeno dagli inizi del Cinquecento, quando Cesare Borgia, impadronitosi della Signoria appianea, cui apparteneva l’Elba, decretò la fine del monopolio del commercio marittimo detenuto da Piombino.
L’inserimento dell’isola nel sistema napoleonico, a partire dal 1802, offrì nuove opportunità all’intera marineria locale, che tuttavia, sebbene in modo diversificato, al suo interno, soffrì le conseguenze del blocco continentale decretato a Parigi nel 1806 e, in generale, delle continue tensioni sullo scacchiere internazionale. Le potenzialità della flotta mercantile elbana, che un censimento del 1809 registrò essere costituita da 141 legni, sui quali navigavano 482 marinai, tornarono a dispiegarsi con la Restaurazione, ma non senza difficoltà, tanto che non pochi bastimenti, nel solco di una pratica sperimentata in trascorsi momenti di crisi politica ed economica, si dettero alla corsa. Non sarà inutile ricordare che, nel 1815, Portoferraio lanciò in mare 10 legni corsari, due dei quali armati dalla mano pubblica.
Il graduale ricomporsi delle cose all’insegna del consolidamento sull’Elba del potere dei Lorena, cui il Congresso di Vienna aveva assegnato l’isola, riportò il naviglio di bandiera alla sua naturale, pacifica vocazione, che però trovò un grave ostacolo nella pirateria magrebina, pressoché sempre presente, più o meno in forze, anche in acque molto lontane dalle sue basi. Ci volle quasi un ventennio perché le marine da guerra della Gran Bretagna, degli Stati Uniti, del Regno di Sardegna e del Regno di Napoli ne avessero ragione. Da allora, caduta peraltro, nel 1830, l’Algeria sotto il dominio della Francia, la marineria elbana partecipò di una crescita di vitalità che fu comune a tutte le altre consimili alle nostre latitudini. Passi ulteriori verso una più sensibile dilatazione di orizzonti geografici ed economici furono compiuti grazie all’attenzione che il governo granducale, già piegato sulle ragioni della Toscana agraria, dedicò al mare, firmando nel 1833 un trattato di libero scambio con Costantinopoli e concedendo “piena e assoluta franchigia al porto e alla città” di Livorno.
A ciò fece riscontro un mutamento nella quantità e nella tipologia del naviglio, chiamato a compiti più impegnativi e a rappresentare una fonte di reddito senza paragoni con il passato. Nel 1834 esso perse 9 unità, per vendita, demolizione o naufragio, e ne acquisì solo 6, ma per un tonnellaggio maggiore. Una curva, a lungo in ascesa, cambiava direzione e non per un caso: si stava assistendo, infatti, al tramonto di alcuni tipi di bastimenti, come la feluca o il pinco, e all’affermazione di altri, armati a vela quadra e di alto bordo, quali il brigantino e il brick. Proseguiva la sua crescita, invece, il personale navigante, che nel 1834 raggiungeva le 1.293 unità.
Agli esordi del 1844 buona parte del naviglio elbano era ancora formato da legni con una portata media di 10-15 tonnellate, ma già le due marine di Rio e di Marciana ne mettevano insieme diverse decine di portata notevolmente superiore. Si trattava di golette, quali la S. Filomena, la Madonna delle Grazie, il Napoleone e la Carolina, di oltre 70 tonnellate; di bombarde, tra cui la Felicità e la Flora, tra le 58 e le 87; di brigantini, come la Bella Caterina, l’Elbano, il Vittorioso, il Cavalier Braschi, tra le 61 e le 134; di brick schooner, come il Costante, i Due fratelli, la Madonna del Carmine, il Principe Ereditario, il Leopoldo II e altri, tra le 60 e le 155.
I velieri più grandi, il brigantino Cavalier Braschi e il brick schooner Leopoldo II, erano di proprietà di Francesco Braschi e di Giuseppe Scappini, i protagonisti locali, con Francesco Mibelli, del processo che dovunque cominciava a dar vita alla moderna attività armatoriale. Si intraprendevano nuove rotte, specialmente nel Mediterraneo orientale, in un serrato confronto con altre marinerie volte a sfruttare l’aumento della domanda di cereali conseguente ad un forte incremento demografico in Europa e le chances che offrivano gli stati nati dal disfacimento degli imperi coloniali spagnolo e portoghese in America, sullo sfondo di un progressivo aumento della produzione industriale e della tenuta dell’architettura politica scaturita dal Congresso di Vienna.
Tutto ciò coinvolse anche l’ambito delle costruzioni navali, che si misurò con la realizzazione di scafi di notevoli dimensioni. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta la Marina di Marciana vide scendere in mare almeno 5 brigantini e brick schooner di una portata compresa tra le 128 e le 134 tonnellate, la Marina di Rio 6 velieri per una stazza complessiva di 428 tonnellate e la spiaggia di Campo un brigantino di 300 tonnellate. Nel 1845 alla Marina di Marciana erano attivi ben sei cantieri, facenti capo ai costruttori navali Giacomo e Giovan Giacomo Carnevali, padre e figlio; Cerbone Paolini, Luigi Lupi, Giobatta Braschi, Pietro Pezzolato e Pietro Lorenzi.
Superato un momento di crisi indotto dai rivolgimenti politici del 1848-’49, la marineria elbana riprese il suo cammino, ritagliandosi uno spazio sempre più rilevante nel panorama specifico del Granducato. Nel 1850 i compartimenti marittimi di Livorno, Viareggio e Orbetello, contavano rispettivamente 221, 152 e 124 bastimenti. In tale scala, quello elbano si inseriva al secondo posto, con 214 bastimenti, che conservava anche riguardo alla portata complessiva; ma saliva al primo, riguardo al numero dei marinai, 2.228, contro i 2.166 di Livorno, i 940 di Orbetello e gli 888 di Viareggio.
Una tale positiva situazione aveva alle spalle anche una serie di trattati commerciali stipulati tra il Granducato e il Regno di Sardegna, il Regno delle Due Sicilie, lo Stato Pontificio, l’impero russo e, ancora una volta, la Porta Ottomana. Essa ricevette un contributo non da poco con la creazione, nel 1851, della Amministrazione Cointeressata delle RR. Miniere del Ferro dell’Isola d’Elba e delle Fonderie di Follonica, Cecina e Valpiana, che incrementò le esportazioni del minerale soprattutto verso la Francia. Nei più importanti approdi elbani, Portoferraio e Porto Longone, dove si rifugiavano e svernavano, di norma, i bastimenti degli altri centri dell’isola, privi di strutture portuali che non fossero dei semplici pontili di legno, risiedeva personale diplomatico della gran parte degli stati italiani, nonché asburgico, russo, ottomano, britannico e francese.
La speciale fisionomia isolana si caratterizzò anche per la fioritura di società di mutuo soccorso tra i marinai, che ripetevano l’afflato solidaristico dell’esperienza di una Società per la redenzione degli schiavi, fiorita a Rio nel Settecento, nonché per la fondazione di una scuola nautica alla Marina di Marciana. Contemporaneamente si moltiplicavano nelle chiese dipinti raffiguranti la Madonna del Buon Viaggio e nuove tavolette votive venivano ad aggiungersi in gran numero a quelle già offerte dal più antico cammino della pietas. Esse, peraltro, oltre a rappresentare con il linguaggio figurativo la tempesta, il naufragio, l’incidente, ora si soffermavano attraverso lunghe dedicazioni su nomi, luoghi, manovre, testimoniando, insieme, di una condivisione e di un nuovo ruolo degli uomini, armatori, capitani, marinai che fossero, in una società già avviata verso una trasformazione in senso capitalistico e laico.
Gradualmente il naviglio elbano si inserì sulla rotta del grano, dall’Egeo al Mar Nero al Mar d’Azov, e nei percorsi transatlantici. Tra il 1844 e il 1854 i velieri Leopoldo II, Cavalier Braschi, Conte Chigi, Angelina, Pompilio, Tartaro, Enrico, Faraone, in rappresentanza degli armamenti riese, marcianese e campese, furono assidui nelle acque turche e russe, caricando, oltre al grano, pelli, legname, lana, semi di lino, zucchero, rame. Essi dovettero affrontare condizioni meteo-marine sempre difficili e talora proibitive, mentre sfidavano i temibili pirati greci, le insidie ignorate da una cartografia sommaria e le ricorrenti, micidiali epidemie di colera, vaiolo, febbre gialla. Nel Mar Nero si spinse anche l’armamento portoferraiese, almeno con un bastimento, il brigantino Romolo.
Sul versante oceanico, nel 1841 salpava da Portoferraio per la Colombia il brigantino Faliero, con a bordo 28 emigranti, 3 di Portoferraio e 25 di Marciana, che portavano nel loro bagaglio “alcune piante da frutto e specialmente delle viti”. Nel 1850 era a Buenos Aires la goletta riese Cavallo Marino e nel 1855 lasciò Portoferraio per San Thomas, nelle Antille, con 26 emigranti, il veliero marcianese S. Giuseppe.
Ai nostri bastimenti non erano sconosciuti, infine, i porti dell’Europa settentrionale. Nel 1858 il brigantino marcianese Unione, di 292 tonnellate, navigava tra Cork e Kingston-upon-Hull, dove caricava carbon fossile.
Intorno alla metà del secolo la marineria elbana, presente quasi su ogni mare e più che mai attiva nel Mediterraneo, onde reggere il confronto con le altre, italiane ed estere, adottò nuove tipologie di naviglio, in grado di veicolare grossi carichi unitari in acque inospitali, quali il brigantino a palo e la nave, mentre già si profilava l’avvento della nave goletta. Di contro, sulle rotte di cabotaggio, acquisì un rilievo considerevole l’agile ed economico cutter.
Negli anni successivi all’Unità d’Italia, senza che intervenissero varianti significative nelle tecnologie della navigazione velica, ormai giunte al loro culmine, all’Elba, come dovunque, la marineria mutò progressivamente volto, affermandosi i sistemi meccanici di propulsione, dapprima primitivi e antieconomici e poi sempre più perfezionati e convenienti. Essa, in ogni caso, avrebbe proseguito ancora a lungo la sua saga, aggiungendo a quella già accumulata indifferentemente sullo sfondo di orizzonti domestici ed esotici una nutritissima teoria di sinistri e di lutti.
A tale straordinario patrimonio di storia e di cultura, qui solo inefficacemente sintetizzato, poco si è rivolta la ricerca che, con temi e momenti spesso di notevole importanza, ha messo in luce quante lacune il tempo e l’incuria hanno seminato nei fondi specifici pubblici e privati. Affinché esse non si dilatino fino alle estreme conseguenze, vicine, peraltro, per quanto attiene al corpus delle fonti iconografiche, occorre che insorga la consapevolezza piena e totale della necessità di correre ai ripari. Questa non si ottiene che promuovendo conoscenza. Dorme, tuttavia, da anni, o passa inconcludentemente da una mano all’altra, un progetto per la costituzione di un Centro di studi per la documentazione audiovisiva della marineria velica elbana che, senza essere un museo, con i suoi alti costi e le sue implicazioni burocratiche, e piuttosto ripetendo esperienze didattiche multimediali, vuole accompagnare l’utenza in un percorso di apprendimento ragionato. Esso può essere limitato ai secoli per i quali la documentazione è più abbondante, il Settecento e l’Ottocento, o ampliato dal Cinquecento al Novecento o magari frazionato in base a criteri da stabilire di volta in volta, contando sulla duttilità del materiale da utilizzare, pannelli con riproduzioni di dipinti, disegni e incisioni, mappe tematiche, narrativa e supporti audiovisivi, e sull’infima spesa.
Ci piacerebbe che il popolo delle barche, gli appassionati di vela e di nautica, gli ospiti in genere alla ricerca dell’Elba nelle sue più autentiche tradizioni, quali già vediamo affollare la Galleria delle tavolette votive, per lo più di soggetto marinaro, realizzata tre anni or sono nei locali della Confraternita del SS. Sacramento di Portoferraio con la collaborazione della Sezione di Italia Nostra dell’Arcipelago Toscano, potessero non vederci perdenti di fronte a realtà, diffuse soprattutto in Liguria, ma non assenti nella più prossima Toscana continentale, nelle quali il mare e la storia hanno trovato originali e felici occasioni di saldatura.
Gianfranco Vanagolli