È un’antica battaglia quella che si combatte tra il nuovo che avanza e il vecchio che tenta di resistere. Personalmente faccio il tifo per il nuovo, salvo quando aggredisce ciò che testimonia in modo esemplare di una storia e di una cultura. Il nuovo, vestito di questi panni, si chiama barbarie, qualunque sia la ragione che lo anima. Si tratta di un’ovvietà, che l’accresciuta attenzione negli ultimi decenni al patrimonio storico-artistico e naturalistico, rende ormai familiare ad ampi strati del corpo sociale. Ciò è vero anche per l’Elba, come ci dicono i numerosi interventi che possiamo elencare a favore, ad esempio, di importanti emergenze architettoniche, realizzati un po’ dovunque nei suoi confini. Basterà fare cenno, qui, al restauro della chiesa romanica di S. Stefano alle Trane, della rocca del Volterraio, delle fortezze del Falcone, di Marciana, di S. Piero e di S. Ilario in Campo, del Forte Inglese, del teatro dei Vigilanti, del complesso della Linguella. Sorprende e amareggia, pertanto, che sopravvivano delle realtà dove tali interventi risultano essere solo sporadici, estranei a un piano generale che li coordini e comunque assolutamente insufficienti a pareggiare il conto con quanto viene lasciato a una sorte che può essere quella del più completo abbandono o della trasformazione arbitraria o della rovina.
È sotto gli occhi di tutti come la torre bastionata del Giove o Giogo, un illustre esempio di architettura militare del Quattrocento, che credo di poter ipotizzare ragionevolmente di mano di Andrea Guardi, sia ormai sul punto di diventare un irrecuperabile cumulo di macerie.
Eppure basterebbe un impegno organizzativo ed economico modesto per metterla almeno in sicurezza attraverso un sistema di ponteggi e per bonificarne le strutture ancora leggibili dalle piante infestanti. Il suo possibile recupero restituirebbe alla collettività un punto panoramico di eccezionale valore, la memoria di uno degli episodi più drammatici legati alle incursioni turco-barbaresche sull’isola nel Cinquecento, un monumento unico nel suo genere nella nostra provincia.
Lo stesso desolante abbandono riguarda i resti della chiesa di S. Quirico, l’antica plebana dello scomparso borgo di Gràssera. Essi sussistono nell’intero sviluppo dei muri perimetrali e in una porzione di abside, che fanno registrare la tecnica costruttiva “a sacco” e il paramento a filaretti degli edifici di stile romanico. La loro vista, tuttavia, è totalmente impedita da un impenetrabile e tenace manto vegetale, che anno dopo anno disintegra le malte, compiendo un’opera di disarticolazione seconda solo a quella esercitata dagli agenti atmosferici. Una semplice copertura e una pulizia periodica permetterebbero di inserire anche questo manufatto nel circuito degli itinerari finalizzati alla scoperta dell’edilizia religiosa medievale della nostra isola.
Un’analoga situazione di trascuratezza interessa uno degli ultimi testimoni dell’architettura rurale di pregio settecentesca presenti all’Elba, vale a dire il “casino” di campagna dove il 5 maggio 1814 l’ex governatore generale dello Stato di Piombino Lazzaro Taddei Castelli ricevette Napoleone. Le strutture dell’edificio, ubicato tra Rio e Rio Marina, che comprende anche un’elegante cappella con un bel portico, sono sul punto di collassare. Sarebbe doveroso, da parte dei poteri pubblici, esplorare la possibilità di giungere ad una convenzione con gli attuali proprietari per l’esecuzione degli interventi più urgenti; convenzione che una recente legge regionale sembra rendere praticabile.
Poco lontano, a Cavo, il mausoleo della famiglia Tonietti, una delle opere realizzate all’Elba dall’architetto Adolfo Coppedé, letteralmente smontato pezzo per pezzo in pratica da un secolo a questa parte, ma con maggior accanimento negli ultimi cinquant’anni, attende la libecciata che lo atterrerà. Corre, tra la proprietà e il Comune di Rio Marina, una storia infinita di cui non si vede la conclusione, per cui bisognerà, prima o poi, se s’intende salvare il salvabile, fare punto e ripartire da zero con proposte che privilegino la pubblica utilità.
Suscita tristezza l’area mineraria, che la vegetazione sta progressivamente occultando, cosicché i caratteristici colori delle antiche lavorazioni affiorano ormai solo a tratti, mentre deperiscono a vista d’occhio i fabbricati che una volta erano laverie, depositi, impianti di discenderie, insieme alle strutture in metallo e al poco d’altro che è scampato a un’opera di eliminazione sistematica di quanto poteva attrarre lo studioso di archeologia industriale e il semplice visitatore. Né si può tacere il destino di mortificazione che condanna uno degli archivi storici industriali più importanti d’Italia, comprendente la documentazione prodotta dalle società concessionarie delle miniere Ilva, Ferromin e Italsider, cui anni or sono, inserito in un’équipe nazionale diretta da Valerio Castronovo dell’Università di Roma, dedicai una ricognizione topografica durata diciotto mesi. Ci dobbiamo chiedere cosa non ha funzionato fin qui, quando le ex miniere da decenni sono parte di uno di quei parchi specifici che in Europa e nel mondo alimentano dinamiche economiche capaci di dare da vivere a intere comunità. Sembra marcare il passo, peraltro, la spinta positiva che alle cose aveva impresso la presidenza illuminata e lungimirante di Luigi Pieri, interrotta per ragioni imperscrutabili.
Non muta il quadro, se ci rivolgiamo all’archeologica classica. Essa, nel riese, conta molti siti interessanti, ma due sono quelli che rivestono un rilievo particolare.
Il primo si identifica con la villa romana di Capo Castello di Cavo. Interpretata come una città, Faleria, da un noto propalatore di fantasie seicentesco, conosce almeno dal Settecento un’opera di devastazione che l’ha portata, oggi, a consistere in pochi brani su cui è arduo condurre uno studio. Questo, infatti, si scontra con gli ostacoli che oppongono decine di costruzioni moderne, non di rado edificate sull’opus reticulatum o sull’opus latericium e comunque in modo tale da spezzare una trama di ambienti una volta ricchi di marmi, di mosaici e di decori di alto valore artistico. Un comitato per la salvaguardia del manufatto, proposto due anni fa, non ha mai conosciuto il suo decollo. La bozza di uno statuto che potrebbe renderlo operativo giace da più di sei mesi presso il Comune di Rio Marina. Non ha avuto seguito un progetto inteso ad illustrare per immagini la teoria delle ville romane esistenti nell’arcipelago e sulla vicina costa toscana, finalizzata anche ad una raccolta di fondi da devolvere a favore della ricerca nella domus cavese.
Il secondo sito si colloca sull’ansa costiera a ridosso di Capo Pero. Esso comprende i resti di una fornace per la riduzione di minerali ferrosi e una grande quantità scorie mescolate a ceramica databile tra il IV/III sec. a. C. e il I sec. d. C., offerta in una lettura stratigrafica da uno sbancamento. Fino alla metà degli anni Settanta ne faceva parte anche, sommerso a tre metri dal litorale, il relitto di un’oneraria romana d’età repubblicana con un carico di anfore. Le vicende, tutt’altro che esaltanti, di un tale prezioso panorama, già osservato, meno il relitto, da Vincenzo Mellini intorno al 1870, meriterebbero assai più dello spazio che mi sono ripromesso di occupare in questa sede. Mi limito a dire che uno scavo esteso anche all’entroterra fornirebbe con ogni probabilità più di una risposta agli interrogativi che ancora gravano sull’antica siderurgia e non solo a livello elbano. Tuttavia, ciò potrà avvenire difficilmente, stante il fatto che il sito, già demaniale, è oggi proprietà di privati, i quali dispongono anche degli immobili che vi insistono, tra cui la villa ottocentesca destinata ai direttori delle miniere pro tempore, vecchio fortilizio dei cannonieri guardacoste granducali, uscita ora definitivamente dall’alveo della propria storia.
È di queste ore, infine, la notizia di un edificio immediatamente a monte di Capo Pero, noto come Il Dormentorio, completamente demolito per fare spazio, pare, a una grande villa. Costruito nella seconda metà dell’Ottocento, il Dormentorio ospitò in una fase della sua esistenza i domiciliati coatti giunti all’Elba e in altre isole dell’arcipelago in base alla legge sul brigantaggio meridionale e gli ergastolani di Porto Longone che affiancarono i minatori locali nelle escavazioni, quando, con la nascita del Regno d’Italia, lo sfruttamento dei giacimenti conobbe una decisa impennata. Il fabbricato, di notevole rilievo architettonico, dopo la totale trasformazione del vicino Bagno, era rimasta la sola struttura carceraria riconoscibile all’interno della miniera. Il suo valore testimoniale appariva, perciò, oggettivamente altissimo e chi aveva il dovere di riconoscerlo e non lo ha fatto, nella migliore delle ipotesi non ha saputo vedere.
Mi domando, e la risposta mi sembra evidente, se la sdemanializzazione che ha interessato vasti tratti del territorio comunale di Rio Marina sia stata accompagnata da una mappatura di quanto potesse risultare significativo sotto il profilo storico, archeologico e architettonico presente al loro interno.
Non rimane che sperare in un futuro in cui si alleino, in chi amministra e gestisce, a qualsiasi titolo,
la cosa pubblica, la correttezza dei comportamenti, la consapevolezza di essere al servizio della comunità, la sensibilità verso quanto è memoria ed espressione artistica, la volontà di preservare alle generazioni che verranno quanto la nostra ha ricevuto non in eredità, ma solo in prestito.
Prof. Gianfranco Vanagolli
Presidente Onorario di Italia Nostra Arcipelago Toscano