Il Parlamento italiano ha ritenuto di dover dedicare due giorni diversi alla memoria delle vittime della follia umana introducendo una distinzione che, ben colta, può rivelarsi occasione preziosa.
La Legge 20 luglio 2000 n. 211 ha istituito la “Giornata della memoria” (27 gennaio) per ricordare le vittime dell’odio razzista del Nazismo e dei Fascismi europei allineati alla politica di Adolf Hitler (1933-1945), che provocò l’atroce morte di oltre sei milioni di uomini, donne, bambini, infermi: la loro “colpa” era soltanto quella di non corrispondere al modello ideale dei teorici della “razza pura”. L’impegno del Parlamento era richiamare tutti a non dimenticare quella tragedia epocale immane, perché mai più si riproponesse.
La Legge 30 marzo 2004 n.92 ha istituito la “Giornata del ricordo” (10 febbraio) per ricordare un’altra pagina drammatica della storia contemporanea, gli eccidi che coinvolsero cittadini istriani di nazionalità italiana e slava (si parla di numeri nell’ordine di cinque-diecimila persone fra morti ritrovati –nelle Foibe, appunto- o “scomparsi”, che deve essere più o meno la stessa cosa) in un susseguirsi di eventi convulsi che riguardarono attori schierati su entrambi i fronti. Questa tragedia costituisce una pagina dolorosissima di storia locale, che comincia dai giorni immediatamente seguenti la fine della Prima Guerra mondiale per terminare con gli avvenimenti successivi all’8 settembre 1943, a conclusione della Seconda.
Le sue diverse sfaccettature sono ormai state ricostruite dagli storici con chiarezza: ma il suo significato più rilevante appartiene piuttosto alla storia dei crimini che tutte le guerre si portano dietro (anche quelle che si sono combattute in quegli stessi luoghi negli anni ’90, anche quelle che oggi si combattono accanto a noi). E’ un capitolo della storia delle guerre che ben merita una riflessione continua, perché le guerre continuano a essere combattute con gli stessi mezzi e le stesse “conseguenze collaterali” (Siria, Iraq, Terra dei Curdi, Yemen, Libia, Africa in genere, America meridionale, ecc.), le stesse abominevoli uccisioni, le stesse rappresaglie, le stesse atrocità; e anche gli attori diretti o indiretti sono più o meno gli stessi.
In questo senso il “Giorno del ricordo” è certamente un’occasione da cogliere, una volta sottratto a anacronistiche polemiche secondo il monito di Claudio Magris (2005): “È blasfemo, è indice di cattiva coscienza usare le tragedie delle vittime per fini politici attuali. Quando, molti anni fa, scrissi sul Corriere dei crimini delle foibe, nessuno dei tanti che oggi se ne sciacquano la bocca vi prestò la minima attenzione, perché in quel momento quei crimini e le loro vittime non servivano ad alcuna propaganda politica. Una cosa è certa: se oggi possiamo tutti parlare liberamente di Risiera e di foibe, esprimendo le opinioni politiche più diverse e contrastanti, lo dobbiamo al 25 aprile, alla Resistenza, alla Liberazione che ha ridato a tutti i cittadini, di destra, di centro e di sinistra, la democrazia e la libertà”.
La Legge 30 marzo 2004 ha il merito di ricondurre le vicende istriane -le vendette consumate da comunità portate all’odio reciproco per decisioni prese altrove, che di volta in volta hanno riguardato istriani di etnia slava e di etnia italiana- alla dimensione unitaria del lutto nazionale -di tutti, dunque- e alle cause che le hanno determinate. La vendetta non può avere alcuna giustificazione.
Talvolta quel ricordo è celebrato dalla Destra come un proprio lutto, un proprio dolore, una propria bandiera, spesso brandita a bilanciare l’Olocausto compiuto da nazisti e fascisti per motivi di razza, di etnia o di integrità virile. Non c’è luogo per confronti numerici, perché la morte violenta di un solo uomo è comunque inaccettabile; però è ugualmente inaccettabile (“perché la storia non può e non deve essere al servizio delle ideologie”) che i morti istriani siano ‘morti di Destra’, anzi ‘i morti della Destra’, così come sarebbe ridicolo affermare che i morti nel Lager siano ‘morti di Sinistra’, o peggio ‘i morti della Sinistra’. I morti sono morti e basta, e chi li ha uccisi è comunque colpevole di assassinio.
La storia, poi, racconta che l’Istria diviene parte dello Stato italiano alla fine della Prima guerra mondiale, quando viene scorporata dall’impero austro ungarico (1922); vi vengono istituite due province (Pola e poi Fiume), e vi si insedia un apparato burocratico composto prevalentemente da personale italiano.
Dal punto di vista degli istriani di etnia slava, che avevano lottato per l’indipendenza della loro terra dall’impero austro-ungarico, gli italiani sono degli ‘occupanti’, e i nuovi governanti non sono diversi dai governanti asburgici; si organizza una ‘resistenza’, e dopo l’8 settembre del 1943 i movimenti di liberazione iugoslavi, a direzione comunista, si insediano nell’Istria e iniziano l’epurazione degli ‘invasori’ italiani che avevano occupato la loro patria negli ultimi vent’anni. La ‘libertà’ dura un mese; e quando nell’ottobre 1943 i tedeschi riconquistano l’Istria e i partigiani slavi si devono ritirare, l’epurazione si traduce in centinaia di processi ‘veloci’, cioè sommari, con altrettanto sommarie condanne a morte e sommarie sepolture, appunto nelle foibe: quasi ovviamente si compì allora l’identificazione fra italiani e fascisti, e in questo i partigiani iugoslavi (prevalentemente comunisti) vollero vedere un ulteriore ‘ragione’, di natura politica (ma fino al settembre ’43 quasi tutti gli italiani erano fascisti, volenti o nolenti). Alla “riconquista” tedesco/‘repubblichina’ seguirono rappresaglie nei confronti degli cittadini di etnia slava, cui furono imputate ‘ovviamente’ le epurazioni compiute dai partigiani nel settembre 1943: si narrano episodi di violenza inaudita, certo resi credibili dai metodi usati ovunque dai nazifascismi dopo l’8 settembre. Così, quando nel maggio-giugno 1945 gli iugoslavi di Tito ‘liberarono’ di nuovo la Venezia Giulia, ci fu una terza ondata di epurazioni: questa volta processi sommari ed esecuzioni riguardarono militari, poliziotti, collaborazionisti, spie, delatori catturati dopo la cacciata dei tedeschi; ma anche italiani partigiani del C.N.L., militari della Guardia di Finanza (non coinvolti certo nelle operazioni repressive dei nazisti), partigiani slavi di orientamento filoitaliano e sloveni anticomunisti. Come dopo l’ottobre ’43 gli slavi erano stati tutti accusati delle repressioni compiute dai partigiani comunisti, così ora gli italiani, tutti accusati delle nefandezze dell’occupazione nazifascista, erano senza distinzione considerati nemici. Questa volta le esecuzioni sommarie furono migliaia, e migliaia le sommarie sepolture. Ma è difficile ascrivere questi morti delle foibe all’appartenenza fascista, perché la situazione in Italia era cambiata, e come è noto dopo il settembre 1943 gli italiani erano quasi tutti antifascisti (e molti, contemporaneamente, anticomunisti). In questo caso la ‘consecutio temporum’ della storia è utile come quella della sintassi.
Insomma, se davvero “la storia non deve e non può essere al servizio delle ideologie”, nella vicenda delle foibe c’è poco posto per distinzioni di appartenenza politica o etnica: i morti dell’Istria, della Venezia Giulia sono tutti ugualmente vittime di una tragedia, che è giusto ricordare come monito perenne: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art.1 Costituzione).
Forse il modo più giusto di celebrare Memoria e Ricordo sarebbe quello di interrogarci sulle mille occasioni che gli uomini continuano a creare con le guerre in corso in tutto il mondo, e ci condurranno un giorno, tardivamente, a celebrare nuovi cordogli.
Luigi Totaro