«Dopo circa due secoli di silenzio e di abbandono, la piccola e rocciosa isola di Montecristo, già sede di un ricco e fiorente monastero camaldolense, veniva più volte sottoposta […] a tentativi di colonizzazione che coincidono, non per mero caso, con la grande diffusione del più celebre romanzo di Alessandro Dumas padre». Così, nel 1925, scriveva Esilio Michel sulla base di ricerche condotte presso l’attuale Archivio di Stato di Livorno, nella sezione «Segreteria di Sanità».
Il primo tentativo di colonizzazione a Montecristo avvenne nell’aprile 1843 da parte del francese Charles Legrand che, insieme alla moglie, decise di creare una colonia agricola sulla rocciosa e sterile isola. I due coniugi partirono da Marina di Campo con l’autorizzazione del Granducato di Toscana, dove avevano acquistato strumenti agricoli e provviste alimentari. Nella stessa occasione assoldarono, con promesse di ottimi compensi, una quindicina di contadini e lavoratori campesi che accettarono l’incarico con entusiasmo. Arrivati finalmente sull’isola, allora totalmente priva di edifici moderni (le uniche strutture erano medievali: il Monastero, la Grotta del Santo, il mulino e i ruderi della chiesetta di Santa Maria), si insediarono nel Monastero; lassù lo spazio a disposizione era molto, la navata dell’antica chiesa era coperta da un solido tetto. Le condizioni sembravano essere ottimali. La colonia agricola aveva iniziato ad esistere: vennero dissodati e coltivati numerosi appezzamenti di terreno, portando l’acqua dai torrenti lungo sentieri malagevoli e scoscesi. Ben presto, però, cominciarono i problemi. Ai coniugi Legrand vennero a mancare sia le vettovaglie per la colonia sia i soldi per stipendiare i dipendenti; fu così che alcuni di essi abbandonarono l’isola, mentre il fornitore campese Alessandro Tesei, cui i Legrand erano già debitori di danaro, si rifiutò di traghettare i generi alimentari richiesti dalla piccola colonia. E così a Montecristo rimasero i due francesi, tre contadini campesi, un cane, due gatti, quattro capre, un capretto, sette polli e un tacchino. La situazione, per la piccola colonia, era diventata insostenibile; stava arrivando l’autunno, e quando finì anche l’ultimo sacco di farina, i Legrand e i tre contadini si trovarono nella disperazione più assoluta. Allora si ricordarono che, secondo un uso già in voga nel Medioevo, potevano chiedere aiuto tramite l’accensione di fuochi notturni sulle vette più visibili dell’isola. Queste segnalazioni luminose furono avvistate dall’Elba, e così, alla fine del novembre 1843, Carlo Chigi – governatore di Portoferraio – fece inviare un’imbarcazione con 60 libbre di «biscotto» per sfamare i cinque membri della colonia montecristina. Nello stesso tempo, però, il governatore fece sapere ai coniugi Legrand che, qualora non fossero giunti da Parigi i promessi fondi per il loro sostentamento, la colonia sarebbe stata rimpatriata. Ma quelle sovvenzioni parigine non arrivarono mai, e così, alla fine di dicembre, il governatore inviò a Montecristo una «spronara» con a bordo due carabinieri e una guardia di sanità, insieme ad una scialuppa per l’approdo con a bordo cinque forzuti uomini. L’ordine del governatore fu quello di far tassativamente abbandonare l’isola ai coloni, anche con l’uso della forza. Giunti al Monastero, gli uomini fecero sgombrare la colonia con tutte le masserizie rimaste (una madia per fare il pane, tre setacci, due casse di legno, un materasso, due fucili, una sciabola, due paioli di rame, attrezzi da cucina, due seghe, sette pelli di capra ed alcuni libri).
Le cronache narrano di un mesto corteo di uomini e di animali che, zigzagando lungo il ripido sentiero per Cala Maestra, assisteva silenzioso alla fine di un sogno.
Silvestre Ferruzzi