D’amore e d’acqua, l’ultimo romanzo di Maria Gisella Catuogno, è un calendrier d’une tranche de vie dei coniugi Simenon, Georges e Tigy, costruito con un mix di scrupolosa aderenza ai giorni e di un’invenzione ricca e sempre sorvegliata. Esso partecipa di un filone piuttosto frequentato nell’Europa francofona – vorrei dire pour cause, data l’enorme, intramontabile, popolarità dello scrittore a quelle latitudini - ma trascurato in Italia e, in questo senso, costituisce un esperimento per le nostre lettere: un esperimento riuscito e riguardo alla sua architettura, solida, rigorosa (un pregio non da poco agli occhi di chi, come me, accoglie senza riserve l’opinione di Hemingway secondo la quale il romanzo è innanzitutto, appunto, architettura), e alla sua cifra linguistica, che in certi momenti in cui vuol rendere un paesaggio dove abbondano cose, siano esse opere dell’uomo o della natura, alberi, fiori, erbe, corsi d’acqua, marine, cielo, ha degli accenti flaubertiani e altrove li supera fino a incontrare il Naturalismo. Cioè lo stesso Simenon che, con Pierre Mac Orlan è, della corrente, l’ultimo grande interprete al di là delle Alpi.
Il calendrier si estende dal 1926 al 1934, articolato su due temi principali: il ménage della coppia e il viaggio. Essi interessano la Catuogno nella stessa misura, rappresentando entrambi altrettanti motori del racconto, ma il primo la incuriosisce e la intriga per la sua peculiarità: Georges esprime degli appetiti sessuali famelici e sebbene la moglie sia sempre pronta a soddisfarli, immancabilmente parte attiva nel rapporto, ha storie con altre donne (tra cui la celeberrima Josephine Backer, la Venere nera, regina delle notti parigine); di più: è un sistematico cliente di lupanari di ogni livello, dovunque si trovino, per visitare i quali non esita a infilare di notte strade malfamate, incurante dei rischi che ciò comporta. Tigy sa e tollera e non protesta nemmeno per la rivale che ha tra le mura domestiche, Boule, la cameriera, un’appetitosa bretone cui il marito regala le sue attenzioni di norma appena alzato, la mattina presto. E’ una donna innamorata del suo uomo, che non vuole perdere. Tutta qui, la sua umanissima, struggente, remissività, intervallata da brevi quanto inutili ribellioni. Georges, invece, col suo diavolo in corpo, viene vivisezionato e così emerge una madre che non lo ha mai amato, la sola donna che gli ha resistito; ma ci sarà dell’altro e allora si va a caccia dell’insondabile. In quest’operazione la scrittrice non si risparmia, vuole capire, attribuisce coraggiosamente allo scrittore dei monologhi da cui emergono cinismo e disperazione, e nel contempo si crea un’occasione privilegiata per innervare le pagine che produce di un insistito leit-motiv erotico di sicuro effetto, cui si può pensare affidi anche un messaggio attinente all’emancipazione del proprio profilo di donna sul piano antropologico in sintonia con un sentire sempre più diffuso nella metà del cielo di appartenenza.
Il secondo tema è quello che dà respiro al romanzo, mettendoci dentro una varietà di orizzonti e il tempo necessario a percorrerli: due luoghi letterari visitati assiduamente da legioni di scrittori e di poeti. Basterà ricordare, qui, il Gide di Voyage au Congo (1925-1926) e il Kerouac di On the road (1951), la Bibbia della Beat Generation, tanto per inquadrare La Méditerranée en goélette, il diario di bordo stilato da Simenon dal maggio all’ottobre del 1934, testimonianza di un viaggio inteso, come gli altri, a bruciare un’ansia di rifiuto ad accantonare radici e convenzioni, a cercare una riconciliazione con la natura e dunque al raggiungimento di una mèta più immateriale che geografica, che la Catuogno rilegge, mostrandosene coinvolta, anche perché le sue coordinate incrociano, tra le altre terre emerse, l’isola d’Elba, cioè la sua isola. Ma il diario è storia di soli cinque mesi, mentre il romanzo restituisce l’intera vicenda del giramondo Georges, assai più lunga, che si trascina dietro Tigy, Boule, due cani e un gatto, inizialmente su una barca di modeste dimensioni, la Ginette; poi su un cutter, l’Ostrogoth; quindi su un mercantile e infine su una goletta, l’Araldo, quella del diario ricordato.
La vicenda, com’è facile dedurre dai mezzi elencati, corre per lo più sull’acqua, che di volta in volta è quella marina su cui si specchia il sud della Francia, quella interna delle vie navigabili, fiumi e canali, che in una rete smisurata collegano il Mediterraneo all’Atlantico; quella dello Zuiderzee e del Mar Glaciale Artico. Sembra che Georges non riesca a scrivere se non su una forma che galleggia, tra molte scomodità, a contatto con un’umanità con cui spesso è difficile dividere volumi angusti, peraltro saturi di odore di pesce o del tanfo perenne dei porti. Personalmente non posso non vederlo come uno dei membri dell’equipaggio della Croix de vie, di Cargo, il suo romanzo di mare più intenso, un vero capolavoro, laddove la Catuogno lo elegge dominus da cui dipendono rotte e soste ovvero i disvelamenti dei sorgitori, gli incontri con le albe e i tramonti, l’addio a un ultimo lembo di terra e soprattutto i contatti con quanti vivono realtà diverse da quelle della grande metropoli sulla Senna, odiata e amata, lasciata per il mare o per la campagna, ma poi invocata, quasi a chiederle la carità di un perdono. Beninteso, abbiamo ragione entrambi, perché entrambi parliamo di un’avventura dell’anima, che è lecito indagare e dove nulla si esclude.
A tale avventura partecipa, vorrei dire paritariamente con Georges, Tigy, che scopre paesi e città e si arricchisce, come il suo uomo e, come il suo uomo, crea, realizzando quadri apprezzati, seguendo un’autonoma ispirazione, di cui va orgogliosa.
La Catuogno è francamente degna di elogio nel costruire gli scenari che si aprono davanti agli occhi della coppia, cui conferisce una molteplice funzione di cornice, alcova, colonna sonora, frontespizio, capace di interagire con i suoi umori, i suoi impulsi, i suoi abbandoni, le sue intime recriminazioni. Essi talora si identificano con degli incipit quanto mai autorevoli: “Il mercato rionale di Liegi, il Marché de la Batte, sul lungomare della Mosa, da secoli attira gente da tutto il Belgio” (p. 81); “L’elemento naturale di Stavoren è la nebbia: sempre diversa, di mattina in mattina…” (p. 94), che contengono quel tanto di eco giornalistica richiesta da un cammino che ha necessariamente del journal. Ma vi sono spazi e momenti più dispiegati, nei quali ci si imbatte particolarmente a proposito della crociera sull’Araldo, comprensibilmente la più vicina al cuore della scrittrice: “Ben presto, in lontananza, comincia ad assumere le forme consuete la terra d’origine dell’equipaggio, l’Elba: dall’acqua emergono i colli conosciuti, seppure ancora sfocati, le riviere ridenti, i borghi che sembrano presepi; e man mano che ci si avvicina, le due note dominanti di colore: il blu scuro del mare, ancora sostenuto dal ponente teso e terso, e il verde della macchia mediterranea, che in certi punti s’inchina quasi a sfiorare il litorale. Il sole è alto, superbo, la luce accecante” (pag.154);
“Poi, distesa sull’amaca, mentre Georges scrive con la pipa tra i denti e il berretto da marinaio calato sulla fronte, [Tigy] si gode la quiete della sera, quando la brezza di mare sembra offrire più forti i suoi profumi e la gente è meno affannata e ansiosa. Nota che i caffè si riempiono e che sottili, pallide ragazze assai belle e con le labbra molto segnate dal rossetto, passeggiano strette ai loro innamorati. Persino l’irrequietezza degli altiforni e i loro gas paiono più sopportabili” (pag.155);
“A un tratto vedono avvicinarsi dal largo una barca da cui si espande una musica dolce e sommessa. Quando è accanto al veliero, alla loro vista si materializzano cinque, sei, otto uomini armati di mandolino e di chitarre, che si lasciano trasportare dalla corrente. “Angelino!” chiamano a gran voce. In pochi minuti sono tutti a bordo e, dopo calorosi saluti al nostromo e al resto dell’equipaggio, si mettono a cantare una romanza napoletana di cui un improvvisato tenore, in costume da bagno, intona le strofe” (pag.169).
Questi brani, non già le mie parole, costituiscono la migliore raccomandazione per preferire un libro cui auguro la collocazione che merita in un contesto il più ampio e denso possibile, dove il confronto non potrà che esaltarlo.
Gianfranco Vanagolli