La letteratura sulla Shoà è molto vasta perché, nell’immediato dopoguerra, ma anche più tardi, per molto tempo dopo e ancora oggi, per fortuna, si è sentito e si sente il bisogno di testimoniare e di riflettere su una pagina tragica, forse la più tragica e assurda, della storia dell’umanità; e quindi su quella tematica si è scritto e si scrive tanto: dai testi memoriali dei sopravvissuti –e a questa categoria appartiene il più importante e classico di essi Se questo è un uomo di Primo Levi ma anche Il silenzio dei vivi di Elisa Springer o Come una rana d’inverno di Daniela Padoan- fino ai romanzi, in cui realtà e finzione si mescolano, ma dove il comune denominatore è comunque il riferimento, seppure liberamente interpretato, a fatti rigorosamente storici, come Schlinder List di Thomas Keneally; sino a opere di saggistica, come Uomini ad Auschwitz di Herman Langbein o La banalità del male di Hanna Arendt, per approdare infine alla poesia, in particolare a quella di Paul Celan, forse il più grande poeta della Shoà, con la celebre Fuga di morte, e di altri, tra cui lo stesso Primo Levi, autore della lirica che apre il romanzo di cui ha ispirato il titolo, e che fu inserita poi nella raccolta L’osteria di Brema col nome di Shemà.
Un posto di rilievo nel nostro ricordo della Shoà, ufficialmente annuale, ma che nell’animo di ciascuno dovrebbe essere quotidiano, deve però obbligatoriamente andare anche a un’opera che è, con quella di Levi, famosa in tutto il mondo e che racconta il prologo dello sterminio, ossia la persecuzione e la clandestinità a cui fu condannata, insieme alla sua famiglia, l’autrice, nel tentativo, risultato drammaticamente vano, di sottrarsi all’arresto. Mi riferisco al Diario di Anna Frank, pubblicato postumo, dall’unico superstite, il padre Otto.
Oggi, il Diario, che denota già nella sua creatrice, appena quattordicenne, la stoffa della grande scrittrice che sarebbe diventata, se solo non le avessero impedito di vivere, esiste in un’edizione, quella di Einaudi del 2005, che offre anche una ricostruzione degli ultimi mesi di vita delle sorelle Frank, Anna e Margot, sulla base di testimonianze e documenti recenti.
E’ proprio dal Diario dunque che è opportuno cominciare per seguire il filo cronologico dell’orrore, che parte dalla pianificazione dello sterminio alla sua attuazione, con i più evoluti mezzi tecnologici del tempo. Perché è proprio questo che deve indignarci e scolpirsi nella nostra coscienza: che nel cuore della civilissima Europa, solo settant’anni fa, sia avvenuta, sia stata resa possibile l’attuazione della pagina più nera della storia dell’umanità. Perché è pur vero che, nel dipanarsi della storia umana, gli eccidi non sono mai mancati né i genocidi, ma la Shoà, per il numero delle vittime, sei milioni, e per il carattere scientifico della sua pianificazione, con i più efficaci ritrovati della chimica, ad esempio il pesticida Zyclon B usato come gas asfissiante, è senza dubbio il genocidio per eccellenza, il più atroce e inqualificabile.
Accanto al popolo ebraico è sacrosanto ricordare comunque anche altre minoranze perseguitate dal nazismo, come gli zingari, i Testimoni di Geova e gli omosessuali, che pagarono un prezzo altissimo al mostruoso tentativo di costruzione della “pura razza ariana razza ariana”. Ma Shoà è parola ebraica che indica lo sterminio nazista: partiamo dunque dalla prima tappa del calvario degli ebrei europei, negli anni successivi all’emanazione delle leggi razziali (‘35 per la Germania, ‘38 per l’Italia) e dello scoppio della seconda guerra mondiale, che accelera l’antisemitismo, presente nel nostro continente da secoli in forma latente ed esplicita nei periodi di crisi, e mette in atto la soluzione finale.
La famiglia ebrea tedesca Frank si trasferisce in Olanda quando Hitler sale al potere, per sottrarsi alle persecuzioni naziste; Otto Frank è titolare di una piccola ditta ed economicamente la famiglia non ha problemi: Per il suo tredicesimo compleanno, nel 1942, Anna riceve un diario sul quale comincia a scrivere le note di una ragazzina vivace, intelligente, affamata di vita, di amicizie e d’amore. Poi tutto precipita: l’Olanda è occupata dai nazisti e i Frank, per sfuggire alle retate contro gli ebrei, decidono di trasferirsi in un alloggio segreto sopra la ditta del padre. Le giornate passano per Anna a pelare patate, a recitare poesie, a leggere, scrivere, litigare, a temere il peggio. Sono in otto nell’alloggio: oltre a loro c’è la famiglia Van Daan e il dottor Dussell; le circostanze drammatiche in cui si trovano, la ristrettezza dell’ambiente, la necessità di non fare rumori rende tutto difficile. E nel diario non manca infatti l’analisi del rapporto conflittuale con i genitori e la sorella o il racconto dell’innamoramento per Peter, suo coetaneo e figlio dei Van Daan, e delle emozioni di un’adolescente inquieta…fino al silenzio. Il diario si interrompe infatti al momento dell’irruzione della Gestapo nell’appartamento, in seguito alla segnalazione di una persona che non è mai stata identificata, ma sembra fosse un magazziniere della ditta. E’ il 4 agosto 1944. Tutti gli abitanti dell’alloggio segreto moriranno nei campi, ad eccezione di Otto Frank.
Margot e Anna passarono un mese ad Auschwitz-Birkenau e vennero poi spedite a Bergen-Belsen, dove morirono di tifo esantematico nel marzo 1945, solo tre settimane prima della liberazione del campo.
Alcuni amici di famiglia che avevano aiutato i clandestini riuscirono a salvare gli appunti scritti da Anna all'interno dell'alloggio segreto, consegnandoli poi al padre, che ne curò la pubblicazione avvenuta ad Amsterdam nel 1947, col titolo originale Het Achterhuis (Il retrocasa). Dopo un'accoglienza iniziale piuttosto fredda, a mano a mano che il pubblico veniva a conoscenza dei fatti della Shoah, il libro suscitò un vasto interesse ed ebbe svariate traduzioni e pubblicazioni (ad oggi è pubblicato in più di quaranta paesi) e rappresenta un'importante testimonianza delle violenze subite dagli ebrei durante l'occupazione del nazismo. Nel 2009 l'UNESCO ha inserito il Diario di Anna Frank nell'Elenco delle Memorie del mondo.
La prima edizione del diario subì tagli e ritocchi perché Otto stesso lo purgò delle parti che riteneva più private; ora per fortuna si può leggere nella sua integrità e ci restituisce l’immagine di una ragazza vera e viva, ironica, appassionata, innamorata della vita, che da grande sogna di diventare scrittrice e che continua a credere negli esseri umani, malgrado la disumanità del mondo che vede intorno a lei.
Ecco alcune frasi del diario:
Ah, quante cose mi vengono in mente di sera quando sono sola, o durante il giorno quando debbo sopportare certa gente che mi disgusta o che interpreta male tutte le mie intenzioni! Perciò finisco sempre col ritornare al mio diario, è il mio punto di partenza e il mio punto di arrivo, perché Kitty è sempre paziente; le prometterò che nonostante tutto continuerò a fare la mia strada e a inghiottire le mie lacrime.
Trovo meraviglioso quello che mi succede, e non soltanto quello che è visibile all'esterno del mio corpo, ma quello che vi si compie internamente. Appunto perché non parlo mai con nessuno di me e di queste cose, ne parlo con me stessa.
Quanto sarebbero buoni gli uomini, se ogni sera prima di addormentarsi rievocassero gli avvenimenti della giornata e riflettessero a ciò che v'è stato di buono e di cattivo nella loro condotta!
Sono felice di natura, mi piace la gente, non sono sospettosa e voglio vedere tutti felici e insieme.
Se un cristiano compie una cattiva azione la responsabilità è soltanto sua; se un ebreo compie una cattiva azione, la colpa ricade su tutti gli ebrei.
Pensa a tutta la bellezza ancora intorno a te e sii felice.
Adesso, seguendo il nostro itinerario letterario sulla Shoà, possiamo dire che una delle primissime testimonianze dei campi è proprio il libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, perché esso fu scritto subito, a caldo, dallo scienziato, non appena egli riuscì, dopo un viaggio avventuroso, a far ritorno alla sua casa di Torino.
Qui Levi non si fa suggestionare da dubbi del tipo Mi crederanno? Troverò le parole per dirlo?.
Ha una formazione culturale scientifica, crede nella razionalità, ritiene suo dovere morale raccontare il vissuto appena trascorso, prima che il tempo faccia vacillare o deformare la memoria. Comincia così la narrazione: l’arresto, la permanenza nel campo di Fossoli, la vigilia della partenza, il terribile viaggio nei vagoni merce, l’arrivo, l’impatto col campo, l’incredulità e le umiliazioni, il lavoro coatto, il comportamento degli aguzzini, l’insensatezza, l’assurdità, l’arbitrio, l’orribile laboratorio sociale che è il Lager, e la necessità della sopravvivenza, comunque.
Quello che ci colpisce dell’opera è la pacatezza, non il grido.
Levi ha tra le mani una materia incandescente e proprio per questo la forma deve essere antiretorica, priva di esclamazioni o di lamentazioni. I fatti vengono descritti con precisione e parlano da soli, urlano la disumanità del Lager. Lo scopo dei carnefici è l’annichilimento dei detenuti, la loro riduzione a bestie o ad oggetti (sono marchiati come
animali, sono chiamati pezzi). E’ per questo che le vittime devono reagire, non accordare il loro consenso, continuare a mantenere la loro umanità.
Al volume fa da epigrafe la poesia chiamata più tardi Shemà, scritta durante la stesura di Se questo è un uomo. La Shemà è l’orazione fondamentale degli ebrei, che comincia così: Ascolta, Israele, il Signore Dio nostro è uno e termina con l’esortazione a non dimenticare. Manca l’atto di fede (per Levi se c’è stato Auschwitz non può esserci Dio) ma è presente il tono esortativo tipico della preghiera: il Voi iniziale, ripetuto due volte e poi Considerate anch’esso per due volte, Meditate Scolpitele Ripetetele; la preghiera si conclude con una maledizione per chi non obbedirà. A che cosa? All’OBBLIGO DEL RICORDO
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Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e i visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce la pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna
Senza capelli e senza nome
Senza più la forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi, alzandovi...
Ripetetele ai vostri figli....
O vi si sfaccia la casa
La malattia vi impedisca
I vostri nati torcano il viso da voi
I versi 5-14 contengono una sintesi della vita e della morte del lager; 5 per gli uomini e 5 per le donne. L’espressione Considerate se questo è un uomo ha ispirato il titolo, che è un invito a riflettere sull’offesa all’uomo esercitata dal Lager ed in generale sulla disumanizzazione degli schiavi ad opera dei loro aguzzini. Il ricordo non è solo un omaggio alle vittime ma il deterrente per altri futuri orrori. Aggiunge infatti Levi
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che "ogni straniero è nemico". Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il LAGER.
Queste parole che Levi premette a Se questo è un uomo costituiscono il miglior invito alla lettura: un monito che lega la tragedia accaduta a tutte le tragedie ancora e sempre possibili. La sofferta testimonianza del Lager si traduce in una scrittura limpidissima, animata soprattutto dalla volontà di far conoscere –comprendere non si può- sino in fondo questo orrore della storia.
Tutte le pagine del libro sono meritevoli di riflessione; ecco alcuni passi significativi, qua e là.
Questo l’impatto con la spoliazione di tutto quello che i detenuti possedevano, arrivando al campo:
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate,vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un UOMO VUOTO, ridotto a sofferenze e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenda allora il duplice significato del termine "Campo di annientamento", e sarà CHIARO che cosa intendiamo esprimere con questa frase: GIACERE SUL FONDO
E ancora, sullo sgomento di deperire giorno dopo giorno:
Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, più squallidi. Ed era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo.
A proposito poi dei sogni, della temporanea perdita di coscienza, Levi dice:
Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta. Ma non ci capita sovente, e non sono lunghi sogni: noi non siamo che bestie stanche...
E ancora, con l’angoscia di non poter più uscire e di negare la conoscenza di quanto è stato:
Sappiamo donde veniamo: i ricordi del mondo fuori popolano i nostri sonni e le nostre veglie, ci accorgiamo con stupore che nulla abbiamo dimenticato, ogni memoria evocata ci sorge davanti dolorosamente nitida. Ma dove andiamo non sappiamo. Potremmo forse sopravvivere alle malattie e sfuggire alle scelte, forse anche resistere al lavoro e alla fame che ci consumano: e dopo? Qui, lontani momentaneamente dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati, non abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell'anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all'uomo di fare dell'uomo.
E a proposito della precarietà dell’esistere in quelle condizioni in cui vita/morte si fondono insieme:
La loro vita è breve e il loro numero sterminato; sono loro i sommersi; loro la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla.
La sete era stata orribilmente sofferta durante il viaggio nei vagoni-merce; nel campo ancora peggiori forse sono la fame cronica e il freddo. Il pasto è una brodaglia che non sazia (Il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente)e il freddo una minaccia mortale; si dice infatti, a proposito del sopraggiungere del secondo inverno al campo:
Con tutte le nostre forze abbiamo lottato perché l'inverno non venisse. Ci siamo aggrappati a tutte le ore tiepide, a ogni tramonto abbiamo cercato di trattenere il sole in cielo ancora un poco ma tutto è stato inutile. Ieri sera il sole si è coricato irrevocabilmente in un intrico di nebbia sporca, di ciminiere e di fili, e stamattina è inverno. [...] Nel corso di questi mesi, su dieci di noi, sette morranno. Chi non morrà, soffrirà minuto per minuto, per ogni giorno, per tutti i giorni: dal mattino avanti l'alba fino alla distribuzione della zuppa serale dovrà tenere costantemente i muscoli tesi, danzare da un piede all'altro per resistere al freddo... Quando abbiamo visto i primi fiocchi di neve, abbiamo pensato che, se l'anno scorso a quest'epoca ci avessero detto che avremmo visto ancora un inverno nel Lager, saremmo andati a toccare il reticolato elettrico; e che anche adesso ci andremmo, SE FOSSIMO LOGICI, se non fosse per questo INSENSATO PAZZO RESIDUO DI SPERANZA INCONFESSABILE...
e ancora, in una sorta di tragico bilancio personale:
Quest'anno è passato presto. L'anno scorso a quest'ora io ero un uomo LIBERO: fuori legge ma LIBERO, avevo un nome e una famiglia, possedevo una mente avida e inquieta e un corpo agile e sano. Pensavo a molte lontanissime cose: al mio lavoro, alla fine della guerra, al bene e al male, alla natura delle cose e le leggi che la governavano, e inoltre alle montagne, a cantare, all'amore, alla musica, alla poesia. Avevo una enorme, radicata, sciocca fiducia nella benevolenza del destino, e uccidere e morire mi parevano cose estranee e letterarie. I miei giorni erano lieti e tristi, ma tutti li rimpiangevo, tutti erano densi e positivi; l'avvenire mi stava davanti come una grande ricchezza. Della mia vita di allora non mi resta oggi che quanto basta per soffrire la fame e il freddo; non sono più abbastanza vivo per sapermi sopprimere.
e collettivo:
Le SS ci guardano passare con occhi indifferenti: la loro opera è compiuta, e ben compiuta. Possono venire i Russi: non troveranno che noi dominati, spenti, degni ormai della morte inerme che ci attende. Distruggere l'uomo è difficile, quasi quanto crearlo: non è stato agevole, non è stato breve, ma ci siete riusciti, tedeschi. Eccoci docili sotto i vostri sguardi: da parte nostra nulla più da temere: non atti di rivolta, non parole di sfida, neppure uno sguardo giudice. Ora ci opprime la vergogna.
Eppure, anche nell’universo concentrazionario resistono barlumi di umanità, come nell’operaio civile Lorenzo, che per sei mesi porta a Levi avanzi di rancio e di pane, gli regala una maglia e spedisce una cartolina a cui riceve risposta. Di lui l’autore dice:
Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata; egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.
E proprio a questo tentativo di recupero di umanità, si può ascrivere l’episodio del Canto di Ulisse, uno dei più belli del libro. Mentre l’autore con altri detenuti sta pulendo l’interno di una cisterna, si affaccia Jean, studente francese, alsaziano, il Pikolo della squadra, cioè colui che, avendo una serie di incombenze, gode di qualche privilegio. Jean è benvoluto perché mantiene con i compagni rapporti umani e li aiuta. Insieme, Levi e Jean devono andare a prendere il secchio della zuppa e distribuirla. Devono fare un chilometro all’andata e uno al ritorno. Il ragazzo chiede allora a Levi d’insegnargli un po’ d’italiano e Primo pensa …al canto di Ulisse di Dante nel XXVI dell’Inferno. Si sforza di ricordarsi i versi e li traduce, come può, al ragazzo. Quando arriva alla terzina famosa Considerate la vostra semenza/fatti non foste a viver come bruti/ma per seguire virtute e conoscenza Levi ha come un’illuminazione e dice, a proposito di quello scritto, Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Nell’estrema degradazione del carcere, l’aggrapparsi al ricordo letterario esprime dunque il disperato tentativo di salvare qualcosa d’umano. Così, la ricomposizione della memoria attraverso i versi di Dante diviene una forma di resistenza all’annientamento. In tutto il libro intensa è l’attenzione verso i civili tedeschi, che non potevano non sapere e tuttavia conservano tranquilli abitudini, benessere, indifferenza. E’ la banalità del male. Il libro di Levi risponde quindi a quattro esigenze, come sottolinea Cesare Segre, nella bella Postfazione all’opera: a) documentare un’esperienza estrema; b)mostrare, per prevenirle, le conseguenze della xenofobia; c)meditare sul comportamento umano in condizioni eccezionali; d)raccontare per liberarsi dall’ossessione. Il ricordo è dunque bisogno e obbligo.
Dopo la straordinaria prova di Primo Levi, che è al tempo stesso memoriale, racconto e saggio di sociologica, con già il carattere dell’opera classica per la straordinaria efficacia evocativa, la misura del linguaggio e la potenza della narrazione, quello che ci colpisce è il silenzio di molti sopravvissuti. Perché?
Probabilmente perché vogliono rimuovere l’assurdità di quanto hanno patito e tornare ad una parvenza di normalità. Ma anche per la paura di non essere ascoltati, capiti. Questa era anche la grande paura di primo Levi; del resto proprio il revisionismo sui campi, quella sciagurata tendenza di certa pseudo-storiografia a negare o ridimensionare le atrocità, fu una delle componenti, secondo Cesare Segre, di quella depressione che ha portato poi Levi al suicidio. Molti sopravvissuti hanno parlato molto più tardi, dopo decenni, consapevoli finalmente che il loro silenzio avrebbe ucciso la verità. Nel 1972 è stato pubblicato Uomini ad Auschwitz di Herman Langbein. Come Levi e altri prigionieri, con quest’opera, che appartiene alla saggistica storica e sociologica ma anche al genere memorialistico, l’autore si liberò del dovere morale di far conoscere al mondo l’inferno di Auschwitz ma anche di rendere credibile con prove e testimonianze quello che poteva apparire inverosimile. Era nato a Vienna nel 1912, aveva partecipato con le Brigate Internazionali alla guerra di Spagna ed era stato internato nei campi di concentramento francesi. Da lì passò a Dachau e poi ad Auschwitz, dove rimase dal ’42 al ’44 non come internato ebreo ma come comunista. Essendo austriaco quindi assimilato ai tedeschi, godette nel campo di una condizione privilegiata, quale segretario del medico SS.
Dopo aver pubblicato una serie di testimonianze di persone coinvolte nei crimini nazisti, Langbein, nel 1972, ha pubblicato la sua opera maggiore col sottotitolo Storia del più famigerato campo di sterminio nazista. Il fatto che il libro sia stato scritto solo nel 1972 consente all’autore distacco e obiettività di giudizi: esso tende a dimostrare come il nazismo abbia spento nel popolo tedesco ogni normale impulso morale: le famigerate SS non hanno più i tratti dei superuomini fedeli e ligi al dovere e nemmeno delle belve; sono solamente squallidi e corrotti individui, egoisti, ottusi e indifferenti alla sofferenza umana.
Nel 1997 vede la luce, per l’editore Marsilio Il silenzio dei vivi. All’ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione. L’autrice è Elisa Springer, nata a Vienna nel 1918 da una famiglia di commercianti ebrei. Nel 1940 viene mandata dalla famiglia a Milano per sfuggire alle persecuzioni ebraiche in Austria, ma nella città italiana viene denunciata alle SS da un’italiana, è arrestata e inviata ad Auschwitz, “deserto di morte senza speranza”. Vive così le atrocità del regime nazista, in un raccapricciante cammino di spersonalizzazione, vittima di un mondo che “stava perdendo il suo Dio, il suo io”. Tuttavia la forza fisica e spirituale di Elisa ha il sopravvento e lei riesce a salvarsi.
Ritorna in Italia dopo la guerra e si ricostruisce una vita, decidendo di soffocare il dolore nel silenzio: per paura di non essere accettata, nasconde sotto un cerotto il tatuaggio sul braccio. Fino a che Silvio, il figlio ventenne, con le sue richieste di conoscenza e di verità non la porta a parlare, a settantotto anni, dopo cinquanta di silenzio. Il racconto, redatto in italiano, parla alla coscienza di ogni lettore. E’ un inno alla forza della vita.
Lo strazio più grande in questi cinquant’anni è stato quello di dover subire l’indifferenza e la vigliaccheria di coloro che, ancora adesso, negano l’evidenza dello sterminio….ho soffocato i miei ricordi vivendo nel silenzio una vita che non era la mia, non è giusto che io muoia portando con me il mio silenzio.
Ancora tre protagoniste femminili sono al centro del libro Come una rana d’inverno edito da Bompiani nel 2004, di Daniela Padoan, giornalista, che ha raccolto le testimonianze di tre donne reduci dei campi di sterminio: Liliana Segre, Goti Bauer e Giuliana Tedeschi. Le prime due hanno avuto un destino comune: entrambe ebree, furono arrestate nella provincia di Varese, al confine della Svizzera, mentre cercavano di sfuggire alle persecuzioni; vennero tradite dalle guide, contrabbandieri che conoscevano tutti i sentieri di montagna per arrivare in Svizzera, cioè verso la salvezza. E invece il loro arrivo era stato segnalato ai tedeschi a Ponte Tresa. Nel libro alcune risposte della Tedeschi, morta nel 2010, insegnante in un Liceo classico a Torino, ci illuminano sulla specificità femminile ad Auschwitz
D: La condizione delle donne non è molto visibile nella storiografia della Shoah. Lei come se lo spiega?
R: Forse perchè gli uomini sono più prepotenti. Lo dico un po' per scherzo, ma non del tutto. Sta di fatto che, quando le donne sopravissute hanno rotto il silenzio, gli uomini avevano già occupato la scena. Le donne non hanno cominciato a testimoniare in pubblico da subito, ci hanno messo del tempo, forse perchè per noi era troppo doloroso. Per le donne è stato tutto uno strappo continuo, un attacco alla nostra stessa identità femminile. I capelli, la nudità, l'immediata solitudine e, soprattutto, il distacco dai figli. Per un uomo è diverso.
D: Quando ha cominciato a raccontare?
R: Tardissimo, perchè ho scritto subito ma poi ho chiuso il libro in un cassetto.
D: Come mai?
R: Quando sono tornata a casa ho vissuto molto ritirata, in parte perchè dovevo darmi molto da fare per lavorare e sopravvivere. Dovevo arrangiarmi con le lezioni private. Di notte però ero ancora troppo oppressa dai ricordi della mia prigionia nel Lager e cercavo un qualche sollievo nello scrivere. Così è nato quel libro di ricordi, C'è un punto sulla terra..., che non ho voluto far leggere a nessuno per quarant'anni.
D: Pur nella decisione di risparmiare alle sue figlie il racconto di ciò che aveva vissuto, agli altri ha raccontato?
R: No, perchè la gente non voleva ascoltare. Dicevano tutti: ah, per carità, ma cosa credi, noi abbiamo talmente sofferto, non avevamo da mangiare, dovevamo scappare di qua e di là, per fortuna adesso è finita, basta, non vogliamo sapere più nulla. Nessuno voleva saperne, nessuno ti chiedeva niente. Lo facevano per sopravvivere, perchè in realtà anche questa gente - che pur non aveva patito i nostri drammi - aveva sofferto le bombe, la fame, la paura, si era dovuta nascondere in montagna. Erano tutti molto provati e nessuno voleva sapere quello che ci era successo. Sicché a me non veniva nemmeno più il desiderio di raccontare.
D: A scuola non aveva mai parlato, prima?
R: Questo è stato molto importante. Non avevo mai parlato e, un bel giorno - insegnavo in una quarta ginnasio - una ragazzina, una di quelle che sono capaci di rivolgersi tranquillamente al professore, mi dice: signora, sappiamo che lei è stata deportata. Per favore, potrebbe raccontarci un po' quello che le è successo? La mia testimonianza nacque così, come una mamma che racconta, in una forma di rispondenza reciproca. Io potevo contare su di loro che mi ascoltavano, e loro volevano ascoltarmi. E' nata così.
D: Quell'assenza di domanda che l'aveva portata a tacere si era spezzata?
R: Per me è stato così. Il racconto è diventato possibile solo quando si è spezzato il silenzio. Merito loro, dei ragazzi. Io non avrei mai parlato, da sola. Ed è nato quel rapporto filiale, proprio quell'anno lì..
Mentre di Liliana Segre, che aveva solo tredici anni, quando fu portata nei campi, la Padoan dice:
Ciò che posso dire di Liliana Segre è la mia soggezione. Perché Liliana porta in sé Auschwitz, e la severità che questo comporta. Lei sa che Auschwitz è accaduto, che Auschwitz ha potuto accadere.
Era una bambina di tredici anni, orfana di madre fin dall’età di un anno, e tuttavia felice, amata, viziata da un padre che, pur continuando a lavorare alacremente, aveva riposto in lei ogni ragione di vita. Con loro, a Milano, in corso Magenta, vivevano anche i due nonni paterni. Conducevano una vita agiata, frequentavano l’Ippodromo di San Siro, la domenica pranzavano con gli amici al Savini in Galleria; Liliana era una Piccola italiana, come tutte le bambine cresciute sotto il fascismo. Poi, nel 1938, le leggi razziali: le progressive limitazioni nel lavoro, il repentino voltafaccia degli amici, la consapevolezza delle umiliazioni subite dai grandi e inutilmente nascoste ai bambini, l’incomprensibile espulsione dalla scuola. «Mi restò per anni la sensazione di essere stata cacciata per aver commesso qualcosa di terribile, che in seguito tradussi dentro di me come “la colpa di essere nata”; perché altre colpe certo non ne avevo: ero una ragazzina come tutte le altre». Poi la guerra, i bombardamenti, la caccia all’ebreo. Un lungo periodo di vita nascosta, braccata tra la Brianza e la Valsassina, infine il tentativo di trovare la salvezza in Svizzera, e l’arresto al confine.
Nella saggistica sulla Shoà, un posto centrale appartiene a I sommersi e i salvati di Primo Levi, una summa dell’esperienza del Lager con le sue dinamiche interne e la decifrazione della zona grigia della collaborazione tra aguzzini e vittime; molto acuta anche l’opera del 1963 La banalità del male, della filosofa ebrea tedesca Hanna Arendt, emigrata negli USA, che fu reporter per il Newyorker del processo ad Eichmann a Gerusalemme.. Adolf Eichmann, gerarca nazista, fu catturato nel 1960, processato a Gerusalemme nel 1961 e condannato a morte il 15 dicembre dello stesso anno. L'esecuzione avvenne il 31 maggio del 1962 per impiccagione. All'epoca il processo ad Eichmann suscitò varie polemiche: in primo luogo perché Eichmann non venne mai legalmente arrestato, ma rapito dai servizi segreti israeliani in territorio argentino, dove godeva dell'asilo politico: dall'Argentina infatti Eichmann fu rapito e fatto passare clandestinamente in Israele, contro la volontà dell'Argentina; in secondo luogo perché Eichmann, nonostante fosse accusato di crimini contro l'umanità, venne giudicato dallo Stato di Israele.
I reportages della Arendt sono poi diventati libro...Di fronte alla superficialità di Eichmann, né malvagio né stupido, l’autrice elabora l’idea del male come mancanza di pensiero: il male non è più qualcosa di eccezionale ma fa parte di noi e delle persone che ci sono vicine. Di fronte al giudice che lo accusava dello sterminio degli ebrei, Eichmann sostenne che non aveva fatto altro che obbedire agli ordini. Ed infatti la sua è una esistenza impostata nell’obbedienza agli ingranaggi burocratici di potere, qualsiasi essi siano. Dunque il suo non è un vero agire, ma una ripetizione degli ordini ricevuti. La sua incapacità di arrivare alla singolarità si manifesta anche nel linguaggio adoperato, burocratico, intessuto di luoghi comuni, con frasi fatte. Sono queste le radici del male, un male quotidiano. Le frasi fatte sono modi di sottrarsi alla realtà. Il male è l’assenza, il rifiuto del pensiero. Pensare è infatti dialogare con se stessi, cioè di porsi di fronte alla scelta fra il giusto e l’ingiusto.
Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, tanto che con il passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge.
Altro saggio interessante è La banalità del bene un libro del 1991, scritto da Enrico Deaglio. Il libro narra della vita del Giusto tra le nazioni Giorgio Perlasca e del suo operato a Budapest durante la seconda guerra mondiale. Il titolo è un chiaro riferimento, ribaltato, al titolo del libro di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Eichmann fu attivo in Ungheria fino al 1944 e fu il principale fautore delle deportazioni di migliaia di ebrei durante la Soluzione finale della questione ebraica del regime nazista. Perlasca, commerciante italiano (1910-1992), nell’inverno del ’44 a Budapest, spacciandosi per console spagnolo, riuscì a salvare dallo sterminio migliaia di ebrei. Dal suo diario emerge l’azione di un uomo che, con l’aiuto di poche persone, sforna documenti falsi, organizza e difende otto “case rifugio”, cerca e trova cibo, strappa ragazzi dai treni della morte, inganna nazisti tedeschi e ungheresi. Un organizzatore geniale e un magnifico impostore; poi torna a casa e tace per cinquant’anni, finché alcune signore ebree ungheresi non cercano di lui, perché ha salvato loro la vita. E’ onorato come GIUSTO in Ungheria, Israele, Usa, Spagna e Italia.
La storia di Giorgio Perlasca dimostra come per ogni individuo è sempre possibile fare delle scelte alternative anche nelle situazioni peggiori, in cui l’assassinio è legge di stato e il genocidio parte di un progetto politico.
A chi gli chiedeva perché lo aveva fatto, rispondeva semplicemente: “. . . ma lei, avendo la possibilità di fare qualcosa, cosa avrebbe fatto vedendo uomini, donne e bambini massacrati senza un motivo se non l’odio e la violenza?”
La poesia
In un suo intervento sulla Shoà e la letteratura del ‘900, Riccardo Bonavita, docente universitario a Bologna, morto nel 2005, afferma che la poesia, meglio di tutte le altre tipologie di scrittura, ci può aiutare a suscitare sentimenti ed enigmi morali di fronte all’evento della Shoà.. L’obiettivo è infatti quello di far sentire l’enormità di quanto è accaduto e far provare dei sentimenti di fronte alla narrazione di questi eventi.. Il filosofo Adorno disse che dopo Aushwitz. nessuna poesia era possibile, poi si è ricreduto con queste parole: “Il dolore incessante ha tanto diritto d’esprimersi quanto il martirizzato di urlare.e poi ancora “dopo A. non ci si può immaginare un’arte serena” La poesia come espressione della “vita offesa” moderna nasce con la prima guerra mondiale quale folgorante e dolorosa scoperta delle potenzialità distruttive insite nella cosiddetta “civiltà”. E con essa anche la paura che potesse entrare in crisi la comunicazione linguistica che la raccontasse. E’ stata proprio la poesia a rendere comunicabile lo sfaldarsi dell’esperienza.(Ungaretti, Apollinaire, Trakl). Il più significativo poeta della Shoà si può considerare Paul Celan (Cernăuţi, 23 novembre 1920 – Parigi, 20 aprile 1970) è stato un poeta rumeno ebreo, di madrelingua tedesca, nato nel capoluogo della Bucovina settentrionale, oggi parte dell'Ucraina. Era figlio unico di Leo Antschel-Teitler (1890-1942) e di Fritzi Schrager (1895-1942). Con Celan assistiamo al tentativo al massimo grado di esprimere con la parola un’esperienza destituita di significati per un uso distruttivo di quelle tecniche che si credevano tra i frutti più alti della civiltà. Con la Shoà, come ci ha mostrato il sociologo Bauman, la tecnologia industriale, le burocrazie, la tecnologia informatica sono state utilizzate per la distruzione sistematica degli esseri umani. Il meridiano della sua poesia è stata la Shoà, perché in essa perse entrambi i genitori, nel 1942. Lui stesso a 50 anni si uccise buttandosi nella Senna: il suo corpo fu ritrovato dieci giorni dopo.
La sua poesia più famosa sulla S. è Fuga di morte, dove il primo termine va inteso in senso musicale.
FUGA DI MORTE
Nero latte dell'alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino, lo beviamo la notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell'aria, là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro, Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei, fa scavare una tomba nella terra
ci comanda “ora suonate alla danza”.
Nero latte dell'alba, ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno, ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti, che scrive
che scrive all'imbrunire in Germania i tuoi capelli d'oro, Margarete
i tuoi capelli di cenere, Sulamith, scaviamo una tomba nell'aria, là non si giace stretti
Lui grida “vangate più a fondo il terreno voi, e voi cantate e suonate”
impugna il ferro alla cintura e lo brandisce, i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza
Nero latte dell'alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo, i tuoi capelli d'oro, Margarete
i tuoi capelli di cenere, Sulamith, lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte, la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell'aria
e avrete una tomba nelle nubi, là non si giace stretti
Nero latte dell'alba, ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno, la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco, il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo, ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo, i tuoi capelli d'oro, Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi, ci regala una tomba nell'aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
I tuoi capelli d'oro, Margarete
I tuoi capelli di cenere, Sulamith.
Nella poesia Celan mette insieme frammenti minimi dell’esperienza concreta del campo di lavoro e dello sterminio per un percorso entro questo orrore. Il latte diventa nero, figura della notte, simbolo di morte; l’ossimoro è agghiacciante perché il latte è l’elemento vitale per eccellenza. E l’assurdità di un latte nero diventa emblema dell’assurdità dello sterminio. Un altro elemento inquietante è la cultura umanistica degli aguzzini: il carnefice gioca con i serpenti, fa scavare la tomba ai prigionieri e nel contempo scrive lettere d’amore a Margarete, sogna i suoi biondi capelli. Margarete dai capelli d’oro ci ricorda Goethe, ci ricorda il Faust. ossia l’apice della letteratura tedesca. I criminali nazisti, che si reputano cultori del bello e dell’umanesimo, agiscono però in senso opposto. A M. si contrappone Sulamith, che è creatura biblica, del Cantico dei Cantici e quindi simboleggia la cultura ebraica e il popolo che si vuole annientare. Tutta la poesia è dunque basata su contraddizioni atroci e inspiegabili.
Vorrei chiudere con una lirica struggente, scritta da una grande donna e poetessa italiana Joyce Lussu, che è stata anche partigiana, e si è meritata la medaglia d’argento al valor militare. In essa si esprime un dolore e uno struggimento tutto femminile, tutto materno, nei confronti delle vittime più innocenti di tutte, i bambini.. L’attenzione è posta su un paio di scarpette rosse, numero 24, di un bambino di pochi anni, ucciso come centinaia di migliaia d’altri nei campi dell’orrore.
Scarpette rosse
C’è un paio di scarpette rosse
numero ventiquattro
quasi nuove:
sulla suola interna si vede ancora la marca di fabbrica
“Schulze Monaco”.
C’è un paio di scarpette rosse
in cima a un mucchio di scarpette infantili
a Buckenwald
erano di un bambino di tre anni e mezzo
chi sa di che colore erano gli occhi
bruciati nei forni
ma il suo pianto lo possiamo immaginare
si sa come piangono i bambini
anche i suoi piedini li possiamo immaginare
scarpa numero ventiquattro
per l’ eternità
perché i piedini dei bambini morti non crescono.
C’è un paio di scarpette rosse
a Buckenwald
quasi nuove
perché i piedini dei bambini morti
non consumano le suole..
Maria Gisella Catuogno