Non è vero che Capoliveri amasse Safa, come in queste ore vorrebbero farci credere. Non tutto il paese lo amava. E non può essere altrimenti per un artista che aveva fatto dell'irriverenza la sua vita. Ma tra quella minoranza che lo amava davvero, e chi scrive è tra essi, la sua perdita è veramente un precipizio.
Di lui mi rimarrà sempre un ricordo bellissimo. Era un piacere passare ore con lui a parlare del Maggio francese, che aveva vissuto da testimone diretto, con i suoi infiniti aneddoti parigini. Della sua vita randagia.
E poi a un certo punto si interrompeva e voleva che gli declamassi qualche frase che amava. Gli ripetevo allora brani di libri o citazioni, che mi avevano colpito e lui lentamente iniziava ad annotare su qualsiasi pezzo di carta gli venisse alla mano. Era letteralmente rapito quando recitavo a memoria, con voluta enfasi attoriale, la celeberrima “La rivoluzione non è un pranzo di gala...” di Mao.
Era infatti per questo suo profondo spirito sovversivo che, almeno lui asseriva, scelse Capoliveri come patria di elezione. “Arrivai in paese, ed entrato in una cantina vidi immagini di Marx, Lenin, Bakunin... Subito pensai: questa è mia patria!” Era quella una Capoliveri che oggi non esiste più. E lo stesso Safa se ne rendeva ben conto: da ciò nacque il celeberrimo e vituperato murales in via Roma: una Capoliveri irrimediabilmente occupata dai tedeschi (“hanno fatto ciò che non riuscito loro con armi, durante guerra”) e devastata dalla ricchezza. Non a caso quando gli citavo il genocidio antropologico teorizzato da Pasolini, e che a Capoliveri aveva colpito più che altrove, assentiva convinto.
Per questa ragione arrivò addirittura a propormi di realizzare insieme un graphic novel. “Tu metti parole, io metto disegni”. Progettammo una storia che doveva abbracciare quasi tutta la seconda metà del Novecento, in cui raccontare appunto il cambiamento così radicale di Capoliveri. Ricordo che buttai giù un soggetto con due vicende inizialmente parallele: quella di un ragazzo tedesco in vacanza, il cui nonno era un soldato di occupazione all'Elba, durante la seconda guerra mondiale; e quella di una ragazza senegalese, che lavora in un albergo dell'isola. La storia sarebbe iniziata con l'orgia violenta di sangue della guerra, e le vicende dei due protagonisti sarebbero coincise e terminate in una scopata liberatoria dei drammi loro e dei fantasmi del passato. Io volevo darle una connotazione più intimista, Safa più politica. Comunque, per colpa mia, non approdammo a nulla. Mi rimane un rammarico per non averla mai vista alla luce: non tanto per il risultato finale (so benissimo che non era un capolavoro, e probabilmente nessuno sarebbe stato tanto pazzo da pubblicare un'opera dai temi così espliciti), ma per essermi privato la vista dei suoi bellissimi disegni.
Così come mi rimane (e soprattutto rimase a Safa) il rammarico per non aver mai visto la luce quel monumento alla pace che progettava e aveva intenzione di installare davanti l'ospedale di Portoferraio. Ricordo che fece uno schizzo dell'opera davanti i miei occhi: tre cerchi concentrici, uno vuoto, uno pieno, e uno con all'interno due figure di soldati nell'atto di arrendersi, a richiamare la figura dell'uomo vitruviano di Leonardo.
Safa era uno che aveva delle sentenze fulminanti. Ne ho conosciuti pochi che con poche parole riuscivano a fotografare una situazione. Che poi è la quintessenza del vero artista. Valga questa battuta come esempio, riferita ai due ultimi sindaci del paese: “Vecchio sindaco aveva Porsche. Nuovo sindaco ha Porsche. Vuol dire che testa è stessa!”
Altrettanto spassosa era poi quest'altra, per quanto storicamente discutibile: “Hitler fu bocciato in accademia perché cattivo pittore. Quindi colpa di nazismo sono professori d'arte!”
Mi mancheranno anche le sue domande spiazzanti: “Andrea, ma se tu vincessi premio Nobel accetteresti o rifiuteresti come Sartre?” Mi lasciava senza parole, dato che l'ultimo dei miei pensieri è proprio quello di vincere un premio Nobel. Ma il suo scopo era quello di far venire allo scoperto il tuo carattere: ovvero sei il tipo veniale e narciso di prendere onori e soldi, o sei un animo puro da fottertene in nome dei tuoi principi. Quando gli feci leggere, primo fra tutti, il mio pezzo in cui dicevo che avrei smesso di scrivere dato che era inutile, mi disse: “Adesso ho risposta: faresti come Sartre.” Scusa, Safa, ma continuo a dubitarne.
Tuttavia c'era anche un Safa realista in lui. Perché è fondamentale essere idealista, ma altrettanto è portarsi a casa la pagnotta. E solo un'ipocrita potrebbe negarlo. Quando gli domandavo se, dopo tanti anni, si sentiva più turco o italiano, rispondeva: “Guarda, vera patria è dove si fa soldi. Quindi io sono pienamente italiano!”
Negli ultimi anni si era ritirato nel suo atelier (una cantina che aveva cercato di mantenere secondo lo stile della vecchia Capoliveri), dopo che una brutta caduta gli aveva limitato molto i movimenti. E con molta ironia aveva dipinto sulla porta le parole “Chiuso per motivi di inutilità”. Rideva molto quando gli dicevo che era la frase giusta, sì, ma per altri portoni. E forse non si rendeva conto che questa volta non citavo o declamavo. Ma dicevo qualcosa che mi veniva dal cuore.
Andrea Galassi