In questo inizio d’anno, ci sono tre fatti di cronaca che fanno da sottofondo ai miei pensieri: i 39 migranti, compresi dei bambini, che da quindici giorni sono in balia del mare, al largo di Malta, soffrendo il freddo e il mal di mare, perché nessun porto europeo li vuole accogliere; l’episodio del vicesindaco di Trieste che si è vantato sui social di aver buttato in un cassonetto le coperte e i miseri indumenti di un senzatetto, momentaneamente assente dal suo giaciglio, e l’ordinanza anticattiveria del sindaco di Luzzara, il paese di Cesare Zavattini, in provincia di Reggio Emilia, che vieta nel suo comune “ ogni esibizione di rancore o di rabbia, sia essa perpetrata verbalmente, nei luoghi pubblici e “nelle stanze virtuali della rete”. Sono fatti apparentemente distinti tra di loro, ma invece uniti da un robusto filo rosso: il rifiuto di guardare i drammi che ci circondano, l’umanità sofferente di fame o di guerra o di soprusi che bussa invano alla nostra porta; la violenza verbale, amplificata dai social, che investe chi sta peggio, chi ha un altro colore di pelle, chi è più debole.
Nessuno abbandona la propria terra con leggerezza, sapendo quali sono i rischi cui va incontro: le migrazioni esistono da quando l’uomo è comparso sulla faccia della Terra e non si fermano con i muri o con i divieti. L’homo sapiens sapiens stesso proveniva dall’Africa, sostituendo, per la sua superiorità intellettiva e tecnologica, l’homo di Neanderthal europeo; in fondo, volenti o nolenti siamo tutti africani!
Il continente nero, se i bianchi colonizzatori non lo avessero depauperato, prima, per quattro secoli, delle sue risorse umane migliori, con la tratta degli schiavi diretti in America, e poi, dall’800, di risorse economiche strepitose con l’imperialismo, potrebbe probabilmente sfamare oggi tutti i suoi figli. Ma la storia, lo sappiamo, non si fa con i “se” e con i “ma”, dobbiamo perciò prendere atto della contingenza attuale: le società africane nate dalla decolonizzazione hanno strutture sociali spesso fragili e incerte, con un tasso di democrazia basso e un tasso elevato di corruzione, e i cambiamenti climatici (anche per questo disastro noi occidentali dobbiamo fare il mea culpa!) hanno aggravato la situazione: aree immense una volta fertili si vanno desertificando, le siccità sono allarmanti pure in certi luoghi del benestante Sudafrica. Ma non basta: le dittature (come quella eritrea, ad esempio)sollecitano le fughe, il terrorismo islamico, insinuandosi nelle pieghe di paesi culturalmente disomogenei (per esempio per differenze religiose, come in Nigeria), tiranneggia e fa stragi: per questo la gente scappa. Occorrerebbe, si è detto tante volte, un “Piano Marshall” per l’Africa: investimenti massicci per evitare le migrazioni; questo permetterebbe l’attuazione di quella proposta, velatamente pilatesca, di “aiutarli a casa propria”. Ma la comunità internazionale quanto è disposta a dare? In che tempi? E intanto? Il problema è immenso, ma può essere governato razionalmente, evitando isterie, per esempio organizzando flussi regolari di migranti, in proporzione alle necessità dei paesi sviluppati, che hanno bisogno di manodopera: il Giappone spalanca le sue porte a 300.000 immigrati di cui ha disperato bisogno, dato il bassissimo tasso di natalità. Ma anche l’Italia ha fame di braccia, specialmente in agricoltura: perché allora non tentare la strada dell’ingresso legale di questi lavoratori, invece di costringerli alla clandestinità e a condizioni di vita disumane? Un’altra soluzione sono i corridoi umanitari, specialmente per chi fugge dal Medio Oriente in fiamme (siriani yemeniti ); alcuni di essi hanno permesso l’arrivo dei richiedenti asilo in piena sicurezza, evitando il Mediterraneo, ormai “mare di morte” e sottraendo guadagni agli infami scafisti. Insomma, le strade per attenuare le tragedie che si consumano quotidianamente e per farci vivere in un clima migliore, di accoglienza e non di rifiuto, ci sarebbero, ma occorrerebbe la volontà politica di attuarle; essa attualmente va invece nella direzione opposta, alimentando un clima di cattiveria diffusa, che tende ad offuscare non soltanto i principi di egualitarismo, dignità, cosmopolitismo, emancipazione, già proclamati dall’illuminismo tre secoli fa; non soltanto le lotte per la democrazia e l’antifascismo, la cultura, la conoscenza, l’autodeterminazione, lo spirito critico; ma addirittura i millenari valori evangelici: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli [affamati, assetati, stranieri] l'avete fatto a me» (San Matteo). Anzi, con un atteggiamento provocatorio e sacrilego, proprio due simboli forti del cristianesimo, come il testo del vangelo e il rosario, vengono utilizzati, rovesciandone il senso, come strumenti di propaganda. Bene fa perciò Papa Francesco a condannare gli ipocriti che si proclamano cristiani e a preferirgli gli atei.
Il vicesindaco di Trieste che butta via le coperte del clochard, per un’esigenza di pulizia, azzera, con un gesto solo, pietà cristiana e umana e mostra di non conoscere nemmeno quelle parole della canzone di De Andrè: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”: l’idea che si debba nascondere la povertà per un fatto estetico, invece di tentare di risolverla per un’esigenza etica, evidenzia non soltanto durezza di cuore e d’intelletto, ma anche ignoranza di un fatto basilare: che la vita stessa nasce dal sudore, dal sangue, da ogni secrezioni umana, non dall’asepsi.
Meno male che, a controbilanciare l’insensibilità di quel vicesindaco, esiste un sindaco d’avviso opposto: che la cattiveria gratuita e vigliacca, qual è quella dei social, dove si grida supponendo l’impunità (per fortuna non è così perché la polizia postale è attiva e vigile!) debba essere individuata, arginata, denunciata e combattuta, perché essa è un cancro che mette a repentaglio la nostra civiltà. Ed è bellissimo che, come controcanto, come “punizione del reo”, quel bravo sindaco indichi la lettura di testi come la nostra Costituzione, “Le memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, “Il razzismo spiegato a mia figlia” di T. Ben Jalloun, “Se questo è un uomo” di Primo Levi; oppure la visione di film come “La vita è bella” di Roberto Benigni, o, per apprendere la bellezza, la contemplazione degli affreschi di Giotto a Padova o lo svolgimento di dieci ore di volontariato presso le associazioni operanti sul territorio comunale, imparando forse cos’è fragilità, bisogno, sofferenza.
Come a dire: ripartiamo dalla cultura, per ridestare sensibilità e umanità, oggi pericolosamente assopite!
Maria Gisella Catuogno