6. Da Zitto e nuota! - All'arrembaggio del Cavodurno (parte 1)
Partimmo dall'Elba verso Livorno, luogo in cui era ancorato in quel momento il veliero Cavodurno. Quando arrivammo al porto, Almiro era là ad attenderci. Dopo baci e abbracci ci guidò verso la sua creatura, ormeggiata nell'angolo più remoto del porto.
Ci dirigemmo verso il Cavodurno in quest'ordine: Almiro al centro con Pieraugusto e Maurizio ai suoi lati; Ariella, Liana e Marisa in seconda fila; io per ultimo, distaccato, che seguivo il gruppo a testa bassa, distanziato di varie lunghezze. Mi sentivo come chi sa di andare incontro a un ineluttabile destino al quale non può sottrarsi. Mi veniva¬no in mente scene tragiche di condannati che andavano verso il patibolo, rividi una scena di Bergman in cui la Morte trascinava a forza le vittime riluttanti, ed ebbi infine la fugace visione di un'illustrazione di Gustavo Dorè nella quale si vedevano i dannati camminare rassegnati verso le fiamme dell'Inferno dantesco.
Alla fine giungemmo a destinazione: nell'angolo più remoto del porto stava acquattato il Cavodurno, placido e sornione come un grosso gatto semiaddormentato. Non so perché mi dette l'impressione del gatto: fatto sta che automaticamente mi sentii un topo e, come tutti sanno, i topi a bordo non sono ben visti... Almiro ci indicò il Cavodurno (a me e a mia moglie, perché gli altri già lo conoscevano) e lo fece con comprensibile orgoglio: con un largo gesto della mano, ad abbracciarlo tutto, disse solamente: «Eccolo qua», e gli occhi gli si velarono di commozione. Il momento, lo confesso, era solenne, e aveva una sua forza emotiva non indifferente (mi ricordava la madre dei Gracchi di romana memoria).
Almiro stava facendo a Pieraugusto e Maurizio alcune raccomandazioni sul motore, sulle vele e sulla barca in generale. Intanto stavo prendendo cognizione di una cosa che all'inizio mi era sfuggita: il Cavodurno era sì ancorato al porto, ma lontano, molto lontano dal molo e dalla terraferma. Era vicino a un grosso bastimento scuro ed era collegato ad esso da una passerella (per inciso notai a colpo d'occhio che la passerella, lunga circa sei metri, era stretta stretta e senza corrimano né a destra né a sinistra: notai il tutto e lo accantonai subito, perché «quel» problema mi sembrò lontano, visto che prima, di problemi, ce n'erano altri, molti altri). Stavo dicendo che il Cavodurno era in mezzo al mare, collegato da questa passerella a un grosso bastimento nero: a sua volta il bastimento in questione (che risultò poi essere un rimorchiatore) era accostato a una grossa barca da carico di colore grigio sporco (nel senso che era pitturata di grigio ed era anche molto sporca), fianco contro fianco (lo so che non si chiamano fianchi, quelli delle barche, ma non so come si dice in mare). Notai che i fianchi del rimorchia¬tore e quelli del barcone da carico non erano alla stessa altezza: il bordo del barcone da carico era molto basso e inoltre, essendo pieno di merce varia, era semiaffondato dal peso, quasi a pelo d'acqua; il rimorchiatore invece aveva le sponde molto alte e galleggiava tutto fuori dall'acqua, cosicché le due barche erano separate da un muro di oltre un metro e mezzo, a vederlo da dove ero io. Mi chiesi come avremmo fatto a scalare quella parete per andare sul rimorchiatore e, da lì, sul Cavodurno. Ma, anche questa volta, accantonai il problema per darne la precedenza a un altro. E il primo problema che mi sorse in mente nacque dal vedere che il barcone da carico era col¬legato al molo non già da una passerella, stretta o larga che fosse, come tutte le normali barche di mia conoscenza, ma da due grosse funi (o gomene?) che uscivano da due «buchi» vicino alla prua nella fiancata del cargo maledetto, una per parte, e andavano a due enormi bitte di ferro murate saldamente per terra sul molo.
Guardai perplesso all'interno del barcone e poi per terra sul molo, ma non vidi passerelle o altro; l'unica cosa esistente nei paraggi era un cavo di gomma elastica arroto lato ordinatamente su se stesso in un angolo seminascosto del molo. Decisi che mi sarei rifiutato con fermezza di fare l'equilibrista sulle corde per salire: prima perché non sono un grosso equilibrista, poi perché le corde erano lunghe molti metri e oscillavano tendendosi e allentandosi paurosamente. Decisi anche che, parimenti, mi sarei rifiutato di farmi catapultare a bordo con il tirante elastico che avevo visto lì a fianco, a mo' di oggetto lanciato da una fionda gigantesca. Ma non ci fu tempo di recriminare o pensare ad altro perché Almiro disse:
«Pieraugusto, sali tu per primo, così aiuti le donne» (dando per scontato che loro, le donne, non ce l'avrebbero fatta a salire a bordo da sole, senza aiuto).
A questo punto mi misi a osservare attentamente Pieraugusto: con il suo quintale abbondante non ce lo vedevo pro¬prio a camminare in equilibrio sulle corde, a braccia allargate come si vede fare al circo... Pieraugusto si avvicinò alla bitta, la scavalcò e... si buttò in acqua! Proprio così! O almeno, a me, lì per lì, parve che si fosse gettato in acqua. Invece no. Proprio accosto alla banchina, piccolo piccolo come un canotto per neonati, c'era un barchino di legno sul quale Pieraugusto si era paracadutato con grazia. Perciò il percorso definitivo per andare sul Cavodurno sarebbe stato: dal molo al barchino, dal barchino al barcone da carico (sporco), dal barcone al rimorchiatore (accostati per un breve tratto) e infine da questo al Cavodurno (tramite passerella). Detto così non sembra poi un'impresa eccezionale salire sul Cavodurno, ma c'è da tener conto di vari problemi: per prima cosa il barchino ancorato al molo era proprio quello che sembrava essere, e cioè un barchino piccolo piccolo, leggero come un guscio di noce, basso di fianchi al punto che sembrava fosse stato appiattito con una pressa; mi dette l'impressione di un windsurf da bambino venuto male (venuto male il windsurf, non il bambino), concavo come un guscio di noce e con un piccolissimo bordo giro giro.
Continua...
Gianfranco Panvini