Sono rientrati con l'ultima nave, dopo oltre 24 ore di viaggio, i nove studenti e un professore dell'istituto scolastico Foresi di Portoferraio hanno vissuto un'esperienza intensa: il Treno della Memoria ad Auschwitz. Organizzato dalla Regione Toscana, il treno partito da Firenze ha raggiunto la Polonia e gli oltre settecento passeggeri hanno visitato i campi di Auschwitz-Birkenau e Auschwitz I, hanno incontrato alcuni testimoni sopravvissuti allo sterminio, hanno visitato la città di Cracovia, hanno svolto, anche durante il viaggio, attività laboratoriali.
Gli studenti del Foresi, accompagnati dal prof. Marco Ambra, docente di storia e filosofia, si sono preparati frequentando un corso di formazione al quale hanno contribuito, insieme ad Ambra, altri docenti della scuola: Nicholas Lucchetti, Nunzio Marotti, Corrado Nesi e Daria Trafeli.
Questi i nomi degli studenti, tutti iscritti alla penultima classe: Stefania Pinna e Flaminia Panico (quarta classico), Veronica Malqui (quarta A scientifico), Elena Carletti ed Evelin Lupi (quarta B scientifico), Sofia Pacini e Michele Schiavone (quarta A scienze umane), Camilla Diakité (quarta B scienze umane) e Cristian De Nuccio (4 alberghiero).
Alla partenza del treno da Firenze, agli studenti il Presidente della Regione Enrico Rossi ha ricordato che l'indifferenza di fronte agli orrori e alle tragedie che ancora oggi accadono nel mondo è un male.
"Quando settanta e più anni fa Auschwitz e gli altri campi di sterminio nazisti sono stati aperti – ha detto Rossi - tutt'attorno c'erano villaggi, come oggi. Si vedevano il fumo e i treni carichi di persone arrivare, si sentiva l'odore della carne bruciata. C'era il fumo e la gente sapeva. O sospettava. Come potevano sopportare? Perché non hanno reagito, vi chiederete. Hanno semplicemente voltato gli occhi dalla parte opposta. L'indifferenza è un male e il treno della memoria toscano vuole essere un antidoto anche per questa piaga. I testimoni sopravvissuti a quell'orrore vi aiuteranno a capire, a porvi delle domande. E tornerete diversi da come siete partiti".
A conclusione del viaggio, l'assessore regionale all'istruzione, Cristina Grieco, ha detto: "Al ritorno torniamo cambiati. Ma con una responsabilità. Non tenere dentro ciò che abbiamo visto, ciò che abbiamo appreso. E con il dovere di restituire, sotto forma di conoscenza, l'esperienza che abbiamo fatto".
E gli studenti hanno risposto prontamente. Prima di tutto raccontando ai loro compagni riflessioni ed emozioni, prima nell'assemblea studentesca e, poi, all'interno dell'azione scenica preparata dagli studenti de "Le Perle dell'Arcipelago", il laboratorio teatrale del Foresi, dedicata proprio alla memoria e intitolata "Dopo tanta nebbia, si svelano le stelle....".
Ora è opportuno cedere la parola a due riflessioni: la prima del prof. Marco Ambra e la seconda della studentessa Stefania Pinna.
Discesa agli inferi
Petrovice u Karviné, Slesia del nord, confine tra Repubblica Ceca e Polonia. È l’ultima fermata del nostro treno, l’ultimo cambio di locomotore prima di inoltrarci nella Slesia polacca e percorrere la strada ferrata che ci porterà a destinazione, ad Oświęcim, ad Auschwitz. Due ragazzi, sette ragazze, un insegnante. Osservando il paesaggio innevato scorrere attraverso il finestrino ho pensato a grandi spostamenti di fanti e pezzi di artiglieria, tra queste lande macchiate da gruppi di salici piangenti e betulle, alla fine del Settecento quando la Slesia e le sue risorse minerarie facevano gola agli Juncker prussiani. Penso a quegli altri <<pezzi>>, esseri umani degradati dalla lingua burocratica della macchina dello sterminio nazista a materiale di riuso, che due secoli dopo si sarebbero mossi lungo la nostra strada in vagoni piombati carichi di terrore e muta disperazione. Ma adesso, seduti al caldo, nello scompartimento occupato da Tatiana Bucci, M., uno dei ragazzi ha inconsapevolmente intercettato i miei pensieri, la lenta dissolvenza tra i pezzi di artiglieria della Guerra di successione austriaca e i <<pezzi>> del campo di concentramento e annientamento, quando lascia scorrere l’inquadratura della fotocamera integrata nello smartphone dal sorriso cortese della nostra ospite al paesaggio imbiancato che scorre rapido, fuori dal finestrino. Tatiana Bucci ci ha raccontato la sua storia e quella di sua sorella Andra, bambine ad Auschwitz, inconsapevoli <<pezzi>> alla mercé del dottor Mengele. Il suo sorriso cortese ci segnala che è il tempo di lasciare il suo scompartimento, di lasciarla riposare dopo averle chiesto la fatica di ri-cordare, di fare un giro intorno al cuore della bambina che è stata, nel campo. È qui, penso, che il nostro viaggio ha effettivamente inizio.
Quando varcano l’ingresso di Auschwitz-Birkenau i ragazzi si muovono più lentamente del solito, non guardano, sembrano sforzarsi di osservare ciò che hanno intorno senza riuscirci. Penso ad una pagina di un asciutto saggio di Georges Didi-Huberman che ho letto in treno: "Un luogo come questo esige dal visitatore che si interroghi, in qualunque momento, sull’atto del guardare. Mi sono accorto, col tempo, che una certa conformazione del mio corpo – la bassa statura, gli occhi miopi nonostante gli occhiali, una qualche paura di fondo – mi sollecitava a guardare soprattutto quel che era in basso. […] Ne è derivato, quasi fosse naturale, un insieme di gesti impercettibili destinati a concentrare il mio campo visivo, piuttosto che a estenderlo. Di conseguenza, ho preso l’abitudine di trasformare questa generale timidezza davanti alle cose, questa voglia di fuggire o restare immerso in una perenne attenzione fluttuante, nella tendenza a osservare tutto quello che si trova in basso: le prime cose da vedere, le cose che hai “sotto il naso”, le cose terra terra. […] A Birkenau, una particolare prostrazione di fronte alla storia mi ha, con ogni probabilità, fatto piegare la testa un po’ più del solito".
Anche i ragazzi sembrano esprimere questa "particolare prostrazione di fronte alla storia" mentre avanzano lungo la Lagerstrasse A, la via principale del campo, che procede parallela alla fine dei binari, alla Judenrampe, la banchina dove i <<pezzi>> scendevano dal vagone piombato per dirigersi chi alla Zentralsauna, per la disinfestazione e l’inizio del lavoro coatto, chi invece alle camere a gas.
Recinzioni di filo spinato, baracche, torrette di avvistamento. La nostra guida, che parla un italiano con una lieve inflessione ispanica, avverte immediatamente i ragazzi che non sosteremo a contemplare l’allestimento delle baracche, con i pancali montati a castello sui quali morte e riposo angosciato convivevano ogni notte. No, dice, ci soffermeremo su ciò che rimane dei forni crematori e delle camere a gas di Auschwitz-Birkenau, per immergerci nella logica ferrea, implacabile, industriale dello sterminio di massa. Ci fermiamo a guardare le foto dimenticate dalle SS nel momento della fuga, i pannelli che immortalano gli ebrei ungheresi giunti qui a morire nell’estate del 1944. Segnano il confine di Birkenau, la foresta di betulle, l’indifferenza della natura alla malvagità e alla abiezione, ai fatti umani. I ragazzi scrutano i visi inespressivi, ebeti, stremati.
Se ne cancellassimo lo sfondo qualcuno potrebbe scambiare quella massa di persone sulla radura che circonda i binari per una placida folla che consuma un pic-nic della domenica. Cosa trasforma un essere umano in un animale docile, pronto a brucare l’erba all’interno del recinto che dischiude l’ingresso nella camera a gas, la discesa agli inferi? Me lo chiedono con insistenza, i ragazzi, più tardi sul treno del ritorno, quando ci ritroviamo nei loro compartimenti per discutere ciò di cui abbiamo fatto esperienza. Ci riuniamo spesso, al ritorno, per girare intorno a questa domanda, a questa aporia della conoscenza storica che per brevità chiamiamo Auschwitz. Ciò che li colpisce e forse li affascina è la falla umanissima nel cuore della ferrea, necessaria, meccanica operazione di sterminio condotta in questo luogo: cosa decide della morte per Zyklon B o per la sopravvivenza nel campo se non un capriccio del caso, una disposizione inintelligibile di circostanze ed eventi? È un giorno soleggiato, gli ufficiali delle SS sono di buon umore e allora chi scende dal vagone piombato viene selezionato per il lavoro. Piove, gli stivali delle SS addette all’infernale check-in si sporcano di fango, bisogna fare in fretta e allora più di metà del convoglio viene spedito direttamente nelle camere a gas. E le stesse camere a gas, mi interrogano i ragazzi, quanti tristi raggiri della sorte hanno dovuto sopportare prima di raggiungere quell’orrorifico equilibrio di morte e spoliazione, di spietato efficientismo, del Krematorium 5? Non so rispondere alle loro domande, taccio, mi arrampico su qualche pagina che ho portato per l’occasione.
Ad Auschwitz I, lo Stammlager, il campo principale perché sede del comando nazista, siamo in una dimensione a loro, a me, più comprensibile. Il complesso museale del campo, i memoriali nazionali, in particolare quello ebraico, dispongono il visitatore all’interno di un percorso più deduttivo, meno esposto all’enormità dell’incomprensibile. Varcato il cancello incoronato dalla celebre scritta Arbeit Macht Frei, dal grossolano sarcasmo di una liberazione dalla fatica estrema del lavoro schiavistico solo attraverso la morte più disumana, i ragazzi, che non cedono alla tentazione della cinematografica foto di gruppo sotto l’insegna, proseguono verso i blocchi di edifici in muratura nei quali si confronteranno nuovamente con l’orrore.
Si fermano a lungo nelle stanze che ospitano l’esposizione degli oggetti d’uso quotidiano, delle scarpe, delle pentole, delle tazze, degli occhiali, delle valigie, dei cumuli di capelli appartenuti alla massa enorme delle vittime. Molti di loro riconoscono in quegli oggetti una dimensione familiare, più comprensibile. Storie, nomi, identità si proiettano in un paio di occhiali o in una tazza con una particolare decorazione, nella chiusura di una scarpa da donna. Sento che in questo regno degli oggetti le loro pinne da pesci dell’oceano consumistico, del mare grande delle merci, nuotano con più facilità. Quando ci fermiamo davanti alle teche che conservano il corredino di alcuni bambini nati in quel trionfo della disumanizzazione percepisco la loro commozione. I gesti si fanno più rigidi, solo le ragazze trovano il coraggio di scattare una foto.
Riguarderemo tutte queste immagini, proveremo nuovamente ad interrogarci sul senso di quegli avvenimenti, sul treno del ritorno. Perché adesso, anche noi, portiamo la responsabilità della testimonianza, l’onere della memoria.
Marco Ambra
Non essere indifferenti
Vogliamo dire a tutti quello che abbiamo provato in questa esperienza. Anche se non è facile a parole. Abbiamo intervistato le sorelle Bucci, sopravvissute ad Auschwitz. Una storia tragica. Erano bambine di 4 e 6 anni. È stata grande la commozione, avevamo le lacrime agli occhi. Ci hanno detto di non essere indifferenti. Di fronte a ciò che riteniamo ingiusto, dobbiamo avere il coraggio di reagire, di dire che non siamo d'accordo e di fare passi concreti per trovare una soluzione. E questo anche se andiamo contro quello che dicono tutti gli altri.
Nel campo di Birkenau sembra che il tempo si sia fermato. Nel museo, tutti gli oggetti testimoniano la vita delle persone che sono state deportate e sterminate. Mi hanno colpito i disegni dei bambini. Messi in sequenza, mostrano l'iniziale spensieratezza espressa nel disegno e con colori vivi; via via comparivano dei mostri, dei draghi. Ricordo il disegno raffigurante una principessa che si copre gli occhi davanti alla realtà atroce.
È stata anche un'occasione di incontro con gli altri studenti della regione.
Il viaggio di ritorno, al contrario dell'allegria dell'andata, è stato caratterizzato dalla riflessione, ognuno ha cercato di fissare nel proprio diario le impressioni e i ragionamenti.
Noi vogliamo portare questo messaggio: non essere indifferenti, avere sempre il coraggio di andare contro le ingiustizie. Ricordando che se noi siamo qui oggi è perché quelle persone hanno sacrificato la loro vita.
Stefania Pinna