9. Da Zitto e nuota! - All'arrembaggio del Veliero Cavodurno (parte 4)
Adesso perciò eravamo tutti sul barcone, che era una specie di grossa chiatta da carico, sporca e malandata, con le fiancate molto basse. Da là si doveva passare sul rimorchiatore e da esso, tramite passerella, sul Cavodurno. Come ho avuto modo di dire, i fianchi del rimorchiatore avevano le sponde (chissà come si dice?) molto alte, accostate a quelle del cargo, che invece erano molto più basse. Salire perciò sul rimorchiatore si rivelò un'impresa semplice e priva di emozioni, perché fu sufficiente mettere un piede sulla sponda del cargo, l'altro piede su quella del rimorchiatore, a mò di scaletta, e saltarci dentro.
Questo in effetti fu fatto da tutti, uomini e donne. Io complicai un poco le cose però, senza volerlo: mi sentivo eccitato e amareggiato per le brutte figure fatte col barchino e volevo riscattarmi. Volevo dare una dimostrazione della mia agilità: avevo intenzione di prendere con nonchalance una piccola rincorsa, appoggiare direttamente le mani sulla sponda alta del rimorchiatore e con una giravolta piroettare al di là della sponda stessa. La manovra sarebbe stata bella ed elegante (l'avevo vista fare decine di volte in TV per reclamizzare la leggerezza di un famoso olio di semi) e sicuramente sarebbe servita allo scopo per cui era destinata, e cioè far vedere al gruppo che non ero imbranato (o almeno non lo ero totalmente), solo che nella fretta di ben figurare non tenni conto di alcuni fattori importanti. A dire il vero, una piccolissima quantità delle mie cellule grigie si sforzarono di far presente alle altre cellule cerebrali l'importanza di questi fattori, ma, come il solito, esse non furono ascoltate.
È frustrante accorgersi che in me esiste un gruppetto di cellule cerebrali oltremodo assennato e sveglio, un vero centro di intelligenza che nota tutto a colpo d'occhio, elabora rapidamente le conclusioni, e le grida al resto del cervello: solo che il resto del cervello non le prende quasi mai in considerazione. Non so bene perché questo succeda; suppongo che il tutto dipenda da una questione numerica, di proporzioni, e, tutto sommato, di democrazia: le cellule intelligenti sono una esigua minoranza e perciò sono relegate all'opposizione, mentre chi governa è il resto del cervello che, per quanto meno assennato, gode però dei benefici della stragrande maggioranza, quale il dover prendere appunto le decisioni senza consultare la minoranza. Ed è un vero peccato perché, come ho detto, quella piccola minoranza è molto assennata. Così mi trovo spesso, nelle situazioni difficili, a «sentire» una vocina che, lontanissima, dice cosa sarebbe bene fare, ma non l'ascolto mai (e sbaglio quasi sempre). La colpa però, come ho detto, non è mia, ma della mia situazione anatomico-democratica. In questa occasione particolare, cioè nel voler saltare a mani unite e di slancio, la vocina urlò con quanto fiato aveva in gola che lo spazio per prendere la rincorsa era troppo esiguo (l'attore che saltava in TV compariva da fondo campo correndo su di un prato e non già su un rimorchiatore), che le sponde del rimorchiatore erano troppo alte, e, cosa di una simpatia molto discutibile, che io non avevo né il fisico né l'allenamento per fare quella giravolta e che sarebbe stato molto meglio se fossi salito «a scalino» come gli altri. Come ho appena finito di raccontare, la vocina è molto assennata, ma anche antipatica (forse proprio perché dice le cose giuste) e perciò non ne tenni conto.
Mi avventai, da due metri e mezzo di distanza, contro la parete di legno che mi stava di fronte e che, stando sulla chiatta, era alta all'incirca quanto me. Anziché appoggiare le mani sulla sponda, far leva su essa e piroettarmi con grazia, come era nelle mie intenzioni, mi aggrappai miseramente in cima al bordo e, sotto la spinta della rincorsa, mi cimentai in uno scontro frontale con la parete di legno che, ovviamente, ebbe la meglio. Oltre a contusioni varie nell'animo e nel fisico, anche i miei indumenti ne riportarono le stimmate tingendosi di un bel colore sporco-indefinito da strusciamento sulle pareti variopinte.
Sopraggiunse infine, come sempre in questi casi, lo stato di «automatismo confusionario». E' questo un particolare stato generato da imbarazzo, delusione, emozione e frustrazione in parti uguali, che interviene sempre quando sono in una situazione particolarmente difficile. Credo che sia da attribuirsi alla presa di coscienza, da parte delle mie cellule grigie maggioritarie, del fallimento delle proprie teorie, della constatazione della giustezza delle idee della esigua minoranza assennata, del relativo imbarazzo e della conseguente caotica reazione nel tentativo di rimediare e salvare il salvabile. Insomma credo che la gran parte del mio cervello passi appunto allo stato di automatismo confusionario; conclusione: io andai «nel pallone». Mi arrampicai, con quanta forza avevo, aiutandomi con le mani e con i piedi, nella forsennata scalata della parete maledetta, strusciando ben bene ogni centimetro quadrato dei miei vestiti su essa; giunsi in cima e, con mia incommensurabile gioia, mi accorsi che nessuno si era accorto di nulla, presi com'erano ad ammirare il Cavodurno dall'altra parte del rimorchiatore. Tutto sommato quindi ero stato abbastanza fortunato: sempre guardando il gruppo per essere certo che non mi vedessero così sdraiato lungo la sponda, mi catapultai in basso con i piedi per mettermi verticale sul rimorchiatore, com'era giusto che facessi. Fui sfortunato:
nel timore che gli altri mi vedessero, io non li mollai un attimo con lo sguardo, così non mi accorsi che, sotto la sponda, avevano accatastato valigie, borse, sacchi, buste, vettovaglie, e ogni altro ben di Dio. Atterrai a piedi uniti sopra la catasta, infilando un piede nel centro di una racchetta da tennis sospesa tra due sacche (ma che ci faceva una racchetta da tennis in una gita in barca?), sfondandola irreparabilmente. Mi dispiacque molto per la racchetta ma ancora oggi sono fermamente convinto che la sua presenza là fosse fuori luogo e non capisco chi avesse potuto portarla. Volevo chiedere di chi fosse, ma poiché erano tutti presi da altri problemi, decisi di soprassedere (e poi me ne dimenticai). Mi stupì solo il fatto che nessuno, in seguito, reclamò per il danno né parlò mai di questa racchetta, segno evidente che si vergognava dell'irrazionalità di aver portato un attrezzo del genere in una crociera da consumarsi tutta sul mare, senza soste a terra. Il tutto rimase avvolto nel più profondo mistero fino alla fine del viaggio. Si chiarì solo qualche mese dopo, a casa, quando Barbara, mia figlia, mi chiese se sapevo dove fosse finita la sua racchetta da tennis che le avevo chiesto in prestito in occasione della vacanza in barca...
Gianfranco Panvini