17. Da Zitto e nuota! - L'ormeggio e il caffè
Giunti alla banchina, si doveva procedere alle operazioni di ormeggio della barca. Le mie istruzioni erano terminate col pestaggio del verricello, così adesso non sapevo cosa fare. C'era un grande movimento, a bordo, e tutti sembravano occupatissimi a fare qualcosa. Pieraugusto aveva gettato le cime a terra a un uomo che evidentemente conoscevano: l'uomo si chiamava Marco. Io volevo in qualche maniera rendermi utile e, non sapendo cosa fare, chiesi:
«C'è qualcosa che posso fare?»
All'unisono Maurizio e Pieraugusto mi risposero: «Noo! » Ebbi l'impressione che la risposta fosse un po' troppo precipitosa, data senza pensarci sopra, di quelle che escono spontanee, in certi casi. Pieraugusto aggiunse subito:
«Puoi scendere a terra, se vuoi, e farti una passeggiatina per conoscere il paese».
Il consiglio mi sembrò buono, anche se non vedevo tutta questa fretta di conoscere il paese, specie in un momento di frenetica attività a bordo.
A ogni modo avevo bisogno di un buon caffè fatto al bar.
Scesi dal Cavodurno saltando sulla cassetta d'acqua minerale rovesciata (la cassetta, non l'acqua) che Marco aveva sistemato, a mò di scalino, sotto il bordo della barca, altissimo rispetto alla banchina. Con la coda dell'occhio notai, di sfuggita, che tutti avevano una passerella che da bordo arrivava a terra: noi eravamo gli unici ad avere la cassetta di ferro capovolta. Era una cassetta che sembrava un po' una gabbia per conigli, fatta di robusto filo di ferro arrugginito. Erano anni che non ne vedevo una in giro, dato che adesso vengono usate quelle di plastica. Pensai che forse Marco, preavvertito via radio del nostro arrivo, si doveva essere messo in cerca disperata di questa cassetta. Era comunque molto funzionale, anche se priva di raffinatezza: era una cassetta che svolgeva con serietà lo scopo a cui era stata destinata di recente, a condizione di mettere il piede proprio nel suo centro preciso. Se uno, per disgrazia, poggiava il piede un centimetro più in là, lei lo prendeva come un'offesa al suo amor proprio e si ribellava, capovolgendosi con tutto ciò che vi stava sopra. Mi alzai da terra (ero stato appena capovolto dalla cassetta) e guardai verso il Cavodurno: l'attività era frenetica. C'era chi legava corde, chi le scioglieva, chi spazzava (insisto a dire che non c'era polvere in mezzo al mare), il tutto condito da ordini urlati a squarciagola, dato che, non so per quale motivo, il motore del Cavodurno non era stato spento. Urlai a mia volta se qualcuno di loro voleva un caffè, ma non ottenni risposta. Mi feci largo tra la folla dei curiosi, accorsi in gran numero ad assistere allo spetta¬colo dell'abbordaggio al porto e rimasti, evidentemente, affascinati dal frenetico lavoro di bordo.
Mi avviai barcollando (la terraferma mi faceva l'effetto strano di essere lei a ondeggiare), verso un locale, sulla strada, che portava l'insegna «bar - ristorante».
Entrai e mi diressi al banco, urlando con quanto fiato avevo in gola:
«Mi faaa un caffeee per favooree!! »
Il barista, o almeno quello che avrebbe dovuto esserlo,
sgranò tanto d'occhi e si alzò dalla sedia su cui era seduto. Non avevo mai visto un barista stare seduto, dietro il ban¬co. Quello rimase a fissarmi come un ebete. Fu allora che mi accorsi che qualcosa non andava, in quel bar. Intanto, era silenzioso: era il bar più silenzioso che avessi mai incontrato. Faceva pensare più a una biblioteca che a un bar. Girai lo sguardo intorno e vidi che tutti dai tavolini mi guardavano con gli occhi sgranati. Notai anche che gli avventori non avevano sui tavoli, come in tutti i bar rispettabili, caffè, aranciate o birre: avevano libri, aperti davanti a loro. A quel punto notai anche che quello che mi era sembrato un banco da bar era in effetti una grossa cattedra. Corsi fuori e girai lo sguardo verso le insegne: tra quella grande che diceva «bar» e l'altra, sempre grande, con scritto «ristorante» ce n'era una piccola piccola che diceva «sala di lettura comunale». Inoltre mi resi conto solo allora che, frastornato dal rumore del Cavodurno per ben dieci ore, avevo urlato come se fossi ancora a bordo.
Cercai di far finta di nulla e mi diressi a sinistra, al bar.
A volte mi chiedo che reazione avrei avuto io se, trovandomi in una sala di lettura, avessi visto comparire un forsennato che urlava a squarciagola che voleva un caffè...
A ogni modo resto del parere che quello non era il posto più idoneo per inserire una sala di lettura. Presi nota mentalmente di parlarne al sindaco del paese, se mai lo avessi incontrato.
Fuori dal Cavodurno, gli spettatori, ormai paghi, se ne erano andati. Il motore era stato spento e forse era proprio quello che aveva tolto al pubblico il gusto del diverso. A bordo, senza quel fracasso, regnava la calma: tutti sembravano rilassati e felici, rinati a un mondo nuovo.
Gianfranco Panvini