19. Da Zitto e nuota! - La muta subacquea (parte 2)
Mi stava venendo in mente infatti che quando ero andato a comprarla, sette o otto anni prima, ero pieno di entusiasmo ed eccitazione per questo mio nuovo hobby.
Purtroppo mi vengono molte voglie (come a tutti, del resto) e alcune di esse divengono hobbies, interessi più accentuati di altri: su questi io mi butto a capofitto, con entusiasmo, e non faccio nulla per mascherare tutto questo mio fervore. Quando queste due prerogative peculiari (l'entusiasmo per qualche cosa e il lasciarlo vedere) incontrano un particolare tipo di commesso, il gioco è fatto: quel particolare tipo di commesso può venderti con tranquillità tutto quello che gli passa per la mente o che ha in negozio, basta che abbia una pur vaga attinenza, vera o presunta, al tuo hobby. Quando andai a comperare la muta ero, come ho detto, supereccitato e invogliato, e «quello» era il particolare tipo di commesso a cui mi riferivo prima. Aveva una sola misura di muta, decisamente picco¬la per me: un'altra persona (nelle vesti di commesso) avrebbe potuto dire che non aveva la misura adatta a me, che magari sarebbe stato rifornito da lì a pochi giorni, che provassi in quel tale o tal'altro negozio; un'altra persona (nelle vesti di acquirente) visto che la muta non era quella della sua misura avrebbe potuto dire: «No, grazie, ne cerco una più adatta», oppure: «Ripasserò tra qualche giorno». Invece era «quel» commesso e «questo» acquirente, connubio perfetto (se prodotti in larga scala) per risanare l'economia traballante di qualunque nazione e la finanza di molte industrie in difficoltà.
Quando sollevai a quel commesso l'obiezione che la mia taglia era almeno due numeri più grande della muta che aveva in negozio, quello inorridì. Che non mi provassi, per carità, a prendere una muta subacquea della stessa mia taglia! Solo un matto o un suicida potevano fare una simile sciocchezza: per un vestito, semmai, per quello sì che la taglia era bene che fosse della stessa grandezza, ma per una muta subacquea giammai! «L'acqua non deve entrare», disse, «deve restare fuori!» (e lo disse così perentoriamente che se io fossi stato l'acqua mi sarei senz'altro peritato a entrare).
Se lei prende una muta della sua misura (sempre parole sue), essa non aderisce bene nei luoghi di confine. Sapevo io quali erano i luoghi di confine? Io, lì per lì, non lo sapevo bene, o per lo meno ero incerto. Erano il girocollo, i polsi, la vita. Da quei punti poteva entrare l'acqua e guai se questo fosse successo! Per convincermi definitivamente disse anche che semmai, se ce ne fosse stato bisogno, mi potevo cospargere il corpo di borotalco per farla scivolare meglio.
Così mi vendette la muta due numeri più piccola della mia taglia (ma ben aderente alla mia persona, con grande gioia dei miei luoghi di confine) e anche cappuccio e guanti (che avrebbero rinforzato le difese nei suddetti confini). Mi vendette anche molte altre cose, che non sto a enumerare perché l'elenco sarebbe lungo.
Questo, ripeto, era successo sette-otto anni prima. Da allora, da quell'acquisto cioè, avevo messo la muta solo due volte. La prima volta mi ero dovuto far aiutare da un amico a infilarla perché non c'entravo dentro: attribuii la cosa al fatto di essermi dimenticato di infarinarmi col talco per farla «scivolare» bene. Fu una mezza tragedia: in acqua respiravo male perché la giacca era troppo stretta e comprimeva i miei polmoni, l'acqua entrava a fiotti nei punti di confine (non li avevo rinforzati con passamontagna e guanti) e i pantaloni erano così attillati che dovevo stare a gambe larghe. Dopo cinque minuti venni a terra per togliermi in fretta il tutto, pena il soffocamento da compressione toracica. Solo che «in fretta» non è la parola giusta perché, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a sfilarmi l'infernale giacca: l'avevo arrotolata dal basso fino al torace, ma da lì non ne voleva sapere di andare più in alto. Contorcendomi come un forsennato non riuscii a muoverla di un centimetro oltre l'ottava costola; cominciavo in compenso ad avere l'affanno. Chiesi aiuto a due giovanotti di passaggio i quali, con molti sforzi, riuscirono a far arrivare il tutto fino al collo, strappandomi numerosi peli del torace. A parer loro la muta non scorreva bene perché era entrata l'acqua «dentro» e si era gonfiata, aderendo alla mia pelle. Fatto sta che giunta al collo, sembrava decisa a non voler venire più via, evidentemente intenzionata a soffocarmi. Mi venne in mente che il commesso aveva usato il verbo «scivolare via» alludendo a questa manovra. Il girocollo invece non ne voleva assolutamente sapere di uscire dalla mia testa e quando finalmente i due baldi giovani lo convinsero che non c'era altra strada, brutalizzando il mio mento, le labbra, il naso e infine gli orecchi, io ero cianotico e con un inizio di asfissia.
Continua...
Gianfranco Panvini