22. Da Zitto e nuota! - Il salvataggio (parte 2)
Non sapendo come ingannare il tempo in mezzo a quella tempesta, o burrasca, o non so più come definirla, che cosa inventarono i miei amici marittimi? Quale folle idea prese il largo nel loro cervello marittimo? Cervello che, ne sono certo, anziché essere immerso nel liquido cefalo-rachidiano come quello di tutti gli altri esseri umani, è certamente avvolto in acqua di mare.
«E se prendessimo il largo?» propose Pieraugusto
«Ci stavo proprio pensando» rincarò Maurizio.
«Potremmo vedere come reagisce il Cavodurno con
questa mareggiata! Almiro sarebbe felice di saperlo…» si entusiasmò Pieraugusto.
«Andiamo!» decise per tutti Maurizio.
Scomparire… Se avessi potuto convincerli in qualche modo, ci avrei provato, ce l’avrei messa tutta, ma uno come me non aveva neppure una possibilità su un miliardo di convincere due marittimi a ritornare sulle loro decisioni in fatto di mare. Se il vento non avesse soffiato così forte in senso opposto alla marcia per
scendere dal Cavodurno attraverso la già precaria passerella, mi sarei precipitato a terra, ma così ero certo, certissimo, di precipitare a mare… Scomparire… non mi restava che tentare di scomparire, di annullarmi, di autotrasportarmi mentalmente in quell’angolo di bar…
Vidi dall’oblò come un incubo le case del porto che si allontanavano e poi si inclinavano paurosamente in basso, e poi risalivano verso il cielo… Poi le case sparivano, e c’era l’acqua, l’acqua del mare vicino all’oblò, e poi il cielo, e poi ancora mare con la schiuma… In quell’incubo vidi due o tre volte delle larghe chiazze gialle, una addirittura enorme: non capii di cosa si potesse trattare ma non me ne importava nulla: in un secondo tempo mi spiegarono che erano Maurizio e Pieraugusto bardati con enormi (specie quello di Pieraugusto) impermeabili di tela incerata gialla, stivali gialli, cappuccio giallo.
Non riesco ancora oggi a spiegarmene il perché, ma non affondammo. Nella logica delle cose, secondo me, avremmo dovuto inabissarci subito dopo essere usciti dal porticciolo, invece non colammo a picco e, per quanto ripensando spesso a quel giorno io ne cerchi continuamente la spiegazione, a tutt’oggi non sono riuscito a trovarla.
Navigammo, a vele spiegate e ponte inclinato di quarantacinque gradi, per un tempo imprecisato durante il quale la mia mente staccò i contatti con il resto del corpo e con il mondo circostante isolandosi in un limbo amorfo, per una pura questione di sopravvivenza.
A un certo punto qualcuno mi strattonò un braccio, riportandomi alla realtà: era Ariella che, per sovrastare il rumore del vento e del mare, mi urlò: «Gracchia!»
Non capivo perché dovevo mettermi a gracchiare e, sinceramente, non sapevo neppure bene come si fa a gracchiare: non sono molte le volte, nella vita, che uno deve mettersi a gracchiare e non avevo perciò esperienza in merito.
Non avendo capito il tutto, guardai la mia dolce metà con occhi interrogativi; lei sostiene che la guardavo con occhi spenti e allucinati, ma forse esagera.
«Gracchia» ripeté. «La radio di bordo gracchia; si sentono mezze parole, sembra che chiedano aiuto… Io non so usarla, vieni tu».
Mi alzai e andai verso la radio ricetrasmittente battendo capocciate come sempre ma con intensità maggiore.
Era effettivamente una richiesta d’aiuto: la capitaneria di porto diceva che un panfilo da diporto si era incagliato su delle secche al largo di Gorgona e a causa del mare grosso stava affondando, con due persone a bordo.
Chiamammo Pieraugusto , che scambiò rapide concitate frasi con l’operatore e disse che saremmo andati noi perché «eravamo già al largo in mare aperto».
Dopo che Pieraugusto fu tornato sopra coperta, il Cavodurno subì una più forte inclinazione dovuta alla variazione di rotta per andare a effettuare il salvataggio.
Quando giungemmo vicino al naufragio del panfilo, misi la testa fuori dal boccaportino per vedere di cosa si trattasse. La barca era praticamente affondata, le onde la sbattevano sugli scogli affioranti spaccando ancora di più la “pancia” dello scafo; in cima all’albero quasi sdraiato sul mare, arrampicati oltre le vele ormai in preda alle onde e strappate, stavano due poveri disgraziati, un uomo e una donna, con gli occhi terrorizzati; stringevano l’albero con tutta la loro forza, ultimo baluardo al loro affogamento; erano senza giubbotti salvagente.
Mentre Maurizio e Pieraugusto armeggiavano con corde e attrezzi vari per organizzare il salvataggio, mi sentii in dovere di dare una mano, di fare anch’io qualcosa. Vidi il megafono, lo accesi, tornai con il busto fuori del boccaporto, e rivolto ai due naufraghi terrorizzati urlai con quanto fiato aveva in gola: «Ehi, voi due! Serve qualcosa?
Avete bisogno di nulla?»
Ovvio dire che Maurizio e Pieraugusto provvidero con rapidità e maestria al salvataggio quei due poveri naufraghi.
Gianfranco Panvini