23. Da Zitto e nuota! - L'ammortizzatore di testate
Dopo le spericolate manovre per scendere dalla cuccetta superiore senza distruggersi la testa contro le longherine del soffitto, presi dall'euforia del buon risultato della difficile manovra, ci si dimenticava di tutto il resto e al primo passo si centrava in pieno un pesante bidone per l'acqua appeso là davanti.
Non ho mai capito cosa ci facesse un bidone per l'acqua sospeso vicino alle cuccette, in quel punto di passaggio obbligato. Al primo passo che si faceva lo si centrava in pieno con la fronte: non c'è stata una sola volta che l'abbia mancato.
Nessuno beveva mai quell'acqua: chi aveva sete andava invariabilmente nel frigo a prenderne di fresca. Mai una volta avevo visto qualcuno degnarlo di attenzione: e sì che ce lo trovavamo sempre davanti. Arrivai anche a pensare che quell'acqua fosse avvelenata o contenesse qualche lassativo da usare solo nei momenti di bi¬sogno. Mi chiesi anche se per caso quel bidone, messo in quel punto, non fosse stato giudicato indispensabile per la stabilità della barca, magari dopo prove e calcoli complicati: questo avrebbe spiegato perché tutti si guardavano bene dal toccarlo; a me, però, si erano dimenticati di dirlo, in quel caso. Dato che me lo ritrovavo sempre tra i piedi (si fa per dire) nelle mie peregrinazioni notturne, pensai che fosse essenzialmente un «bidone notturno», come ci sono gli animali notturni, ma mi vergognavo a chiedere spiegazioni in merito. Avrei anche voluto chiedere se si poteva togliere da lì, ma temevo di dire una grossa baggianata, di quelle che mi avrebbero reso ridicolo, sul muretto. Non le contai neppure, le zuccate che vi detti; smisi, anzi, di contarle quando il loro numero stava assumendo proporzioni preoccupanti. Ero comunque contento che il bidone fosse pieno, anche se le zuccate erano più dolorose: da vuoto però, pensai, avrebbero rimbombato per tutta la barca e a lungo andare scoccia che gli altri ti conoscano nei tuoi aspetti peggiori. Quel bidone si prese gran parte del mio tempo, sul Cavodurno, perché, quando non ero occupato a darvi testate, me ne stavo ore e ore sdraiato a osservarlo. All'inizio sembrava un bidone come tanti altri, ma dopo un'ora o due che l'osservavo, scoprii che aveva un carattere gioviale e allegro perché, quando era certo che fossimo soli, mi sorrideva e mi faceva l'occhiolino. Una volta ho anche avuto l'impressione che tirasse fuori due braccini e mi facesse la linguaccia portandosi le mani alle orecchie, a mo' di sberleffo, ma di questo non sono assolutamente certo perché stavo per prendere sonno.
Come stavo dicendo, avevo rimorso per starmene in cuccetta mentre tutti si davano un gran da fare, così scesi e cercai di darmi anch'io un gran da fare. Solo che non avevo istruzioni precise. Nessuno si curava di me e sembrava che neppure mi vedessero, se non nei momenti in cui mi chiedevano di spostarmi perché ingombravo il passaggio. Riuscii a prendere testate in ogni spigolo che il Cavodurno conteneva, e anche nelle parti senza spigoli. Per non rovinarmi completamente la forma della testa (che, per quanto strana, è pur sempre la «mia» testa), avevo avuto la brillante idea di costruirmi un «ammortizzatore di testate".
Si trattava di una specie di corona, di mia invenzione, fatta con un tubo di gomma abbandonato sul ponte: me l'ero girato due volte intorno alla testa, sopra le orecchie. Era, tutto sommato, un bel copricapo, di un verde brillante: a un'estremità c'era un tappo di vetro, che aggraziava il tutto e dava un tocco raffinato perché, a prima vista, aveva l'aspetto di un enorme brillante. Il mio aspetto era un via di mezzo tra un indù e Gesù Cristo con la corona di spine. Per un po' riuscì a salvarmi la testa, ma poi dovetti abbandonarlo perché pesava due o tre chili e le mie orecchie (che avevano il compito di tenerlo in posizione utile) si afflosciarono sotto il peso, accartocciandosi in malo modo.
Gianfranco Panvini