24. Da Zitto e nuota! - Il boma
Mi aggirai ancora un po' per la cabina, ma dopo un'ora, stufo di sbattere ovunque, decisi di andar fuori a telefonare a mia figlia. Avrei approfittato dell'occasione per muovermi un po' in posti dove non correvo il rischio di infrangermi la testa.
Salii perciò in coperta e mi avviai a poppa, a testa bassa per le raffiche del vento.
Il vento aveva spostato il boma, senza che io ne sapessi nulla. Non lo vidi. Era un boma all'antica, quello, solido, fatto in casa con robusto legno stagionato, massiccio e compatto. Non se ne vede più in giro, di questi tempi, di boma siffatti. Almiro non aveva badato a spese, per quel boma. Immagino si fosse detto: «Ho cercato di risparmiare su tutta la barca. Bene: sul boma voglio largheggiare. Farò un boma come ce ne sono pochi: dovrà resistere al logorio del tempo». Questo, penso, si fosse detto Almiro quando lo costruiva.
La testata che vi detti, tra la radice del naso e la fronte, mi respinse indietro con un tuffo. Mi aggrappai istintivamente alla cosa più vicina che trovai, per non cadere. Era la corda che reggeva il tendalino, la cosa più vicina. Il tendalino era un largo telo che riparava dal sole la zona pranzo di coperta. Cademmo insieme, io e il tendalino, in un groviglio di braccia, gambe, corde e tela.
Non so perché urlai: forse ero frastornato dalla testata e il mio subcosciente si confuse, pensando di essere un bambino, quando aveva paura dei draghi e del buio. Fatto sta che urlai come un pazzo, gesticolando con mani e piedi per liberarmi dal tendalino che cercava di strangolarmi.
Quando riuscirono a sbrogliarmi, non dissi una parola.
Confuso e mortificato ripresi la strada verso poppa, a testa bassa per non dare ulteriori zuccate. La bandiera italiana che, nonostante il vento e i nostri sforzi si era ostinata a voler rimanere strettamente arrotolata alla sua asta, decise che era giunto il momento di sollecitare il nostro patriottismo e si distese con cura, sventolandomi inaspettatamente davanti e dentro gli occhi. Non vidi più nulla: inciampai in qualcosa (c'era sempre, sul Cavodurno, qual¬cosa su cui inciampare, se se ne aveva voglia) e mi catapultai a capofitto contro un montante di ferro che stava a poppa. L'urto fu tremendo, sia per il montante di ferro, che si piegò gemendo, sia per la mia zona parietale destra, sopra l'orecchio omologo, che urlò tramite la mia bocca. Intontito e confuso, saltai a terra, ma mancai ancora una volta, per pochi centimetri, la cassetta di ferro, e mi ritrovai disteso a terra con due gatti neri che mi guardavano incuriositi e con un cagnolino che prese a saltellarmi alle-gramente intorno, pensando che avessi inventato un nuovo gioco.
A quel punto mi prese una grande nostalgia di casa: pensai, con tristezza, a mia figlia Barbara. Non sapevo se, al mio ritorno da questo viaggio, sarei stato per lei lo stes¬so padre: a volte tanti colpi in testa possono creare danni irreparabili, sia nel fisico che nel morale. Mestamente mi avviai alla cabina telefonica e vi entrai. O meglio, volevo entrare, perché nell'aprire la porta a molla, inciampai, e volai a testa in avanti contro lo spigolo del distributore di gettoni. Per la zuccata violenta uscirono sette gettoni (dal distributore naturalmente, non dalla mia testa).
Quando, finalmente, udii la voce di Barbara, mi misi a piangere come un bambino.
Gianfranco Panvini