Non è male ricordare che quest'anno ricorre il bicentenario della nascita di uno delle personalità più luminose della cultura isolana. A Rio Marina, il 15 dicembre 1819 nasceva infatti Vincenzo Mellini.
Forse il mondo della cultura elbana dovrebbe celebrarlo appropriatamente, considerando quanto esso ha rappresentato per tutti gli studiosi successivi.
Condensare la sua figura in poche righe è impossibile. Vincenzo Mellini è sicuramente il personaggio che più di tutti ha esplorato l'inesauribile serbatoio di interessi che quest'isola offre. È penetrato in ogni piega della sua affascinante storia, tanto che i suoi dettagliati reportages non possono essere tralasciati da ogni ricerca che a tutt'oggi si vuole intentare.
Sezionò le tradizioni popolari quasi consapevole che fossero un bene fragile che da lì a poco per gran parte sarebbe andato perso per sempre.
Con attenzione decodificò la variegata parlata isolana, in un saggio che ha fatto da base a ogni dizionario vernacolare edito da lui in poi.
Con lo stesso interesse si dedicò all'altrettanto ricca toponomastica.
Raccolse la passione del padre Giacomo per l'archeologia e la coltivò, regalandoci puntuali descrizioni di siti tanto più preziose, e diremmo amorevoli, considerando l'abitudine perniciosa degli elbani di sbriciolare ogni vestigia nobile del passato. Quasi con la dedizione di chi fa un censimento ha catalogato e corredato di dati e schizzi ogni monumento antico da Cavo a Pomonte. Ha battuto l'isola palmo a palmo, macchia per macchia, colle per colle, per descriverne le rocce o scovare gli accumuli ferriferi.
Ha collezionato ogni documento che potesse essere testimone di un aspetto della sua terra. Un'opera che è durata una vita, e i cui risultati sono tanto variegati da non poter trattare una materia senza trovare un suo originale contributo.
Solo questo lo porrebbe su di un piedistallo della storia culturale elbana.
Se poi pensiamo che la sua testimonianza non è rimasta confinata agli angusti spazi isolani, ma in alcuni casi è stata citata fuori anche dai confini nazionali, abbiamo il segno dell'importanza della sua opera.
Per tutta la vita fece ricerche in archivi e biblioteche, di comuni e parrocchie, ma anche all'aria aperta: sono centinaia i rilievi sul campo di siti archeologici, soprattutto quelli che testimoniano di un passato estrattivo e metallurgico, sparsi ovunque sull'isola. È il caso della mappatura dei fabbrichili isolani, gli antichi accumuli di scarti di fusione ferriferi che testimoniavano la passata attività metallurgica. Con questa ricerca Mellini si accingeva 1° di stabilire l'epoca in cui funzionarono detti fornelli; 2° di scoprire i processi di quella primitiva fabbricazione del ferro; e 3° di accertare la qualità del metallo che ne ottenevano.
Un'opera di assoluto valore, tanto più condotta in tempi in cui questi siti erano perfettamente visibili e quasi intatti. Ma questa interessante proposizione rimase allo stato embrionale: ne studiò e raccolse reperti utili per la loro datazione solo in sette, tutti tra Rio Marina e Cavo, sugli oltre cento di tutta l'isola.
Ma importanti sono anche alcune sue scoperte archeologiche, che lo portarono alla collaborazione con il più grande studioso di paleoantropologia all'Elba, Raffaello Foresi. A questi donò tre crani, recipienti di terracotta, frammenti di collane, fusi e fibule, databili all'Età del Ferro, da lui portati alla luce nel 1865 in un riparo sotto roccia a Calamita. I reperti furono donati alla città di Portoferraio, per poi essere trasferiti al museo di antropologia di Firenze.
Fece valere la conoscenza in scienze naturali per studi fisici e geologici sulla sua isola: tra essi spicca una carta geologica e la collaborazione a un'altra geognostica, entrambe dell'Elba. La seconda, con scala 1:20.000, è citata da Bernardino Lotti come incompiuta, per la sopraggiunta morte, nel 1865, dell'altro compilatore, l'ingegner Enrico Grabau. Lo stesso Lotti afferma che era assai avanzata per quanto riguarda la parte orientale dell'isola. Malgrado fosse incompleta, venne esposta alla mostra di Firenze nel 1861. Collaborò anche a due tra i più completi progetti per una mappatura geologica dell'isola, quali quelli di Igino Cocchi, del 1871, e dello stesso Lotti, del 1882. Nella miniera di Calamita fece da guida, nel 1855, al politico e diplomatico inglese Henry Drummond Wolff, che rimase colpito dalla cultura di Vincenzo, tanto da citarlo spesso in un suo saggio sull'isola.
Come il padre, aveva ben presente l'importanza di corredare le ricerche con numerosi disegni di reperti o planimetrie di chiese e monumenti, accompagnandoli con didascalie. Fece anche ipotesi ricostruttive di alcuni edifici storici diroccati, ma alcune sono da prendere con molta cautela. Non va comunque negata l'importanza di certi suoi rilievi, come quello della cisterna romana del Lentisco, avendo visto molti siti in condizioni certo non del tutto compromesse come sono presentemente. Non si limitò alla sola Elba, ma estese la ricerca a tutto l'Arcipelago toscano. Nel 1852 quindi fece una rilevazione dell’abbazia benedettina di San Mamiliano di Montecristo. Fece saggi poi alle catacombe di Pianosa e le chiese al Giglio.
Tutti i suoi studi dovevano portare a un progetto ambizioso: una sorta di enciclopedia storica locale, che avrebbe preso il titolo di Delle memorie storiche dell'isola dell'Elba, formata da 18 volumi. Ma l'opera rimase postuma, in quanto il suo progetto pare arenarsi nel 1888. Dagli scritti conservati dai discendenti si evince almeno i titoli di alcuni volumi.
Così sappiamo che il libro I doveva prendere il titolo di Dalla caduta dell’Impero d’Occidente alla distruzione del Regno dei Longobardi, il III quello di Dall’origine della Repubblica di Pisa alla formazione dello Stato di Piombino [1005-1399], il IV Dal trattato di Londra allo stato definitivo dei confini dello Stato di Piombino all’Elba, la seconda sezione del V Situazione delle cose elbane fino al ritorno dei Francesi [20-7-1799 / 30-4-1801] e infine il VI L'isola dell'Elba sotto il governo di Napoleone I.
Se i primi sei libri dovevano essere una storia dell'Elba, è molto probabile che i restanti trattassero i vari aspetti frutto delle ricerche nei vari campi: dalla linguistica all'archeologia, dal folclore allo studio degli antichi statuti, dalla geologia alla botanica.
La monografia dedicata a Capoliveri inoltre suggerisce che alcuni libri fossero dedicati esclusivamente ai singoli paesi, ricostruendone una storia che ponesse l'accento più che sugli eventi storici generali – comuni a tutta l'Elba, e che quindi rischiavano di indulgere in inutili ripetizioni tra sezioni – sulle caratteristiche politiche, economiche e sociali tipiche ed peculiari di ogni centro isolano. Un grandioso e completo affresco dunque sull'Elba di quegli anni, ma soprattutto del passato.
Malgrado l'incompletezza si può tuttavia affermare che quanto aveva raccolto fino alla morte rimane come il corpus documentario più consistente che mai sia stato prodotto da erudito elbano.
Il fatto che la gran parte di questa ricerca rimanesse inedita, per volontà dello stesso autore, ci dà forse un indizio sull'intenzione di voler dare all'opera una forma compiuta e organica solo nel momento in cui tutti gli studi fossero compiuti, quasi fosse in un continuo work in progress. Molti dei suoi appunti sono infatti in forma di semplice abbozzo, ancora da sviluppare.
È il caso di quell'opera che doveva prendere il nome di Della fabbricazione, lavorazione e commercio del ferro dai tempi più antichi fino al secolo attuale (1881) nell’isola d’Elba, conservata al Dipartimento di discipline storiche dell’università di Bologna. Essa doveva far parte di uno dei volumi della suddetta enciclopedia, e sarebbe risultata un'altra opera fondamentale nella conoscenza dell'attività mineraria elbana, sicuro punto di riferimento di ogni ricerca. Le poche pagine si compongono di note di lettura, dati statistici sulla produzione, sugli infortuni sul lavoro, una storia dell’estrazione e lavorazione del ferro (non solo nell’Elba) dalla protostoria ai tempi moderni, corredate da citazioni geologico-geografiche, tecnologiche, economiche, basate su un gran numero di fonti, dall’antichità agli arabi, agli autori rinascimentali e ai geologi e tecnologi del Sette-Ottocento.
Gli scritti che però riteneva compiuti od originali li fece pubblicare. Quello più famoso è il libro V del suaccennato progetto, I francesi all'Elba, saggio storico sull'invasione dell'esercito repubblicano all'isola nel 1799, un punto fermo per ogni ricerca sul periodo, molto ben scritto sebbene con spirito partigiano (Vincenzo non tradisce il suo antigiacobinismo) e a volte con eccesso patriottardo, ma intellettualmente onesto e raccontato con dovizia di particolari ed episodi resi vividamente quasi minuto per minuto.
Uscì nel 1890 presso il livornese Giusti ed è stato ristampato in forma anastatica nel 1999.
Nel corso del Novecento molti suoi inediti furono pubblicati. È il caso del volume VI delle Memorie, edito però come Napoleone I all'isola d'Elba (1914, poi ristampato nel 1962); oppure, nel 1965 di un saggio sui siti archeologici e i monumenti antichi dell'isola, tratti da studi sparsi qua e là della sua imponente produzione, e dato alle stampe con il titolo di Parte archeologica ed artistica, curato e corredato di note critiche da Giorgio Monaco; così come, nel 1996 la monografia su Capoliveri, che come gli altri manoscritti non risulta nella sua forma definitiva, ma continua a rimanere l'apporto più importante sulla storia capoliverese, tanto che Vanagolli scrive: Si può dire, anzi, che la sua sobrietà e le sue ricostruzioni “globali” paiono precorrere certa moderna, buona divulgazione.
Nel 2005 fu poi dato alle stampe il Saggio di vocabolario del vernacolo elbano, a cura di Annalisa Nesi, con una biografia dell'autore di Crista Bertelli. Il manoscritto originale è conservato alla Biblioteca Foresiana di Portoferraio. Inutile dire che anche questa ricerca è un punto fermo nello studio della glottologia e linguistica elbana, con osservazioni molto interessanti sul folclore e le superstizioni isolane.
Ma Mellini fu anche parte attiva dell'Ottocento elbano: lo troviamo a ricoprire incarichi importanti, da direttore delle miniere (dal 1871 al 1891) a sindaco di Rio Alto (dal 1861 al 1866) e di Rio Marina (1886-87). La sua opera più importante fu l'acquedotto pubblico, inaugurato il 16 agosto 1868. Esso fu il primo passo di un progetto di più vasta portata, che tendeva a dotare di acqua potabile anche ai centri di Capoliveri e Portoferraio.
Gli ultimi sei anni della sua vita li trascorse a Livorno, dove morì il 13 novembre 1897. Si doveva essere distaccato dalla sua isola con molti risentimenti, dato che né mai mostrò interesse a tornarci, né le dedicò altro studio, e chiese di essere sepolto nel cimitero dell'Ardenza. La ragione forse va cercata nei duri scontri politici e di forti interessi economici che investirono la gestione delle miniere elbane nell'ultimo quarto del XIX secolo: negli anni '90 prevalse la fazione di del Buono, fortemente avversa a quella di Mellini, che dovette cedere la direzione al suo rivale.
Andrea Galassi